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Che fai il Primo Maggio?

Che fai il Primo Maggio?

«Che fai per il primo maggio?» Un sorriso, sbieco: «Che faccio il primo maggio? Lavoro!». Un’ esclamazione secca, senza allegria anche se buttata lì con un sorriso. A pronunciarla un portuale, poco più che trentenne. Genovese. La domanda poteva essere fatta a qualsiasi lavoratore di un altro porto italiano e la risposta sarebbe stata la stessa. Perché per chi lavora nei porti commerciali italiani il primo maggio è una giornata lavorativa qualsiasi. E non si tratta di garantire il minimo dei servizi essenziali alla vita del Paese. Si parla di merci, di produzione.

Benvenuti nel gioioso mondo della flessibilità. Flessibilità garantita 24 ore al giorno 365 giorni all’anno. E il primo maggio in porto non è festa, casomai è rabbia e frustrazione che rotolano per quattro turni: si comincia all’una di notte del primo, si finisce che è già il due. Prima di tutto ci sono i traghetti, che con la scusa di trasportare passeggeri (e quindi di garantire “servizi essenziali”) sbarcano container e rimorchi di Tir. Perché il traghetto è un oggetto “promiscuo”, dove si trasportano persone e merci, dove servizio e produzione si miscelano in un unico oggetto che è l’incubo di chi si occupa della sicurezza. Passeggeri, camion, gru, moto, container, muletti e carrelli. Tutto viene scaricato e caricato velocemente, mezzi e persone che si incrociano in spazi stretti. Basta un attimo e ci scappa il ferito. Può succedere, ed è successo.

Poi ci sono le merci deperibili, come gli alimenti, ma anche come la cellulosa. La stessa cellulosa che ha ucciso Enrico Formenti il 13 aprile del 2007. I portuali la chiamano “la bomba” perché è confezionata in balle che se non impilate correttamente crollano in un niente, perché bisogna scaricare di corsa visto che la merce non si deve inumidire, perché basta una scintilla a incendiarla. E poi il concetto di “deperibilità” della merce, per spedizionieri e terminalisti e armatori è un concetto elastico, molto elastico. I container non si aprono, e dichiarare la deperibilità della merce per velocizzare carico e scarico è prassi non eccezione.

«Sono diventati come soldati per lavorare». Così descrive i moderni docker’s italiani un vecchio “camallo” in pensione. Che nel mondo del lavoro si stia svolgendo una guerra lo avevamo capito, come era chiaro che uno dei campi di battaglia fossero i moli italiani pure. Una guerra che fa feriti, mutilati e morti. E con soldati “regolari” e “irregolari”. E caduti da contare o da rimuovere abilmente dalle statistiche, come emerge dai dati ufficiali. Perché l’ufficialità crea morti di seria A e morti di serie B. L’autorità portuale di Genova parla di 10 morti in dieci anni, ad esempio, mentre i lavoratori parlano di una trentina di decessi in porto nello stesso periodo. Esiste perciò una discrepanza enorme fra i due numeri che è difficile giustificare se non analizzando bene “chi si conta”. L’Autorità conta il numero di portuali ufficiali, ovvero dei dipendenti delle varie imprese e delle Compagnie, che sono deceduti lavorando “in calata” mentre i lavoratori contano anche gli operai edili, i camionisti, i marittimi deceduti “nel porto” senza guardare, come fanno le autorità, alla mansione. Per i lavoratori non fa differenza la mansione ma il luogo. Perché per loro, oltre al tipo di lavoro, è anche il luogo ad essere pericoloso.

E in questo gioco di rimozione cadono anche sindacati e le Compagnie portuali. Come è successo a Monfalcone qualche anno fa quando un giovane portuale è stato ucciso da un carrello. Un giorno di bora, talmente forte che era stato chiuso il porto di Trieste, mentre a Monfalcone si era deciso di lavorare ancora. La bora ha impedito all’uomo di sentire il segnale acustico del mezzo in arrivo ed è stato investito. Si chiamava Franco Ciccarella. La compagna e gli amici hanno costituito un’associazione in sua memoria, e ogni anno organizzano iniziative e dibattiti sul lavoro e la sicurezza. Un po’ di tempo fa volevano porre una targa all’ingresso dell’edificio della Compagnia portuale (unico luogo possibile e frequentato da tutti i lavoratori del porto), ma questa lo ha impedito. Perché Franco era un dipendente di una cooperativa, faceva si il portuale ma non con un contratto o “una mansione ufficiale” da portuale. E la compagnia di Monfalcone non può certo permettere che si ponga una targa che commemori una morte che non è “loro”.

Una battaglia, una guerra. Non si fanno prigionieri. Noi e gli altri. Ma perfino nelle guerre guerreggiate un giorno di tregua non lo si nega. Un giorno in cui non si uccide e non ci si fa uccidere. Ma questa regola non scritta nella guerra che ogni giorno si svolge sui moli italiani non vale. Neanche se è il primo maggio. 

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