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Catalogna verso l’indipendenza? La storia dell’ultimo biennio (2012-2014)

Non è possibile comprendere ciò che sta succedendo in Catalogna estrapolando la questione catalana dalla situazione di crisi generale che sta vivendo la Spagna in questo ultimo lustro. Anche perché i dati macro e micro dimostrano che la Catalogna è stata colpita tanto quanto la Spagna dalla crisi economica e che le ricette applicate per “uscire dalla crisi” dal governo regionale catalano – guidato dal conservatore Artur Mas dal novembre del 2010 – sono state le stesse applicate poi da Rajoy e sono iniziate ancora prima.

Come spiega bene il già citato professor Vicenç Navarro, “si deve capire che le politiche che si stanno applicando in Catalogna e in Spagna sono il sogno delle destre, sia di quella catalana sia di quella spagnola”. Ossia, privatizzare, smontare lo stato sociale e abbassare i salari. Sia in ambito statale sia in ambito locale, infatti, tra il 2010 e il 2012 – ed anche in seguito in alcuni casi – CiU ha appoggiato il PP e viceversa, arrivando a facili accordi sull’applicazione di drastiche misure di austerity. La “luna di miele” tra i due partiti è finita però nel settembre del 2012: da quel momento sono state le bandiere a prendere il sopravvento in entrambi i lati dell’Ebro, senza però portare a un cambiamento nella strategia neoliberista di entrambi i governi.

Quello che è successo nel settembre del 2012 è stato un cocktail potenzialmente esplosivo gestito nel peggiore dei modi dai governi di Madrid e di Barcellona. Il vicolo cieco in cui ci si è cacciati deve molto alle scelte compiute in quelle settimane e al dialogo tra sordi che è stato portato avanti coscientemente nei due anni successivi. Riassumendo, si può dire che mentre a Barcellona si chiedeva una maggiore autonomia e si scaricava la responsabilità della crisi economica e delle politiche di austerità su Madrid – coniando lo slogan “Madrid ci deruba” –, a Madrid ci si è sempre tappati le orecchie, negando a priori qualunque tipo di possibilità di ridiscussione dello status quo.

LEGGI ANCHE LA PRIMA PARTE DI QUESTO INTERVENTO: LA QUESTIONE CATALANA E LA CRISI SPAGNOLA

La situazione si è rapidamente radicalizzata: a Barcellona dalla richiesta di maggiore autonomia si è passati alla rivendicazione di uno Stato catalano e dell’indipendenza dalla Spagna, mentre a Madrid ci si è opposti ancora, sempre più fermamente, a qualunque possibilità di costruire un dialogo per trovare una via d’uscita, appellandosi all’inviolabilità della Costituzione spagnola del 1978, che dichiara “l’indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli” (art. 2) e che “la sovranità nazionale risiede nel popolo spagnolo (art. 1, comma 2).

Un dialogo tra sordi, appunto, dove i non molti tentativi di trovare una terza via sono rimasti isolati e hanno goduto di ben poca considerazione. Come evidenzia il giornalista Antoni Puigverd, “l’indipendentismo catalano chiede ciò che la Spagna non può costituzionalmente concedere: un demos catalano. Però il nazionalismo spagnolo […] non solo non ha proposto nessuna soluzione alternativa, ma ha anche accentuato la ricentralizzazione”. Una via d’uscita che non comporti fratture pare sinceramente difficile da trovare al punto in cui si è giunti, come vedremo tra poco.

Se nel 2006, quando si discusse e poi si approvò il nuovo statuto d’autonomia catalano, il dialogo fu difficile, ora sembra praticamente impossibile. Le differenze economiche e politiche, come si è visto, aiutano nella comprensione di questa situazione: nel 2006 la Spagna viveva il miglior anno della sua storia dal punto di vista economico e a Madrid e a Barcellona vi erano due governi disposti a dialogare (quello socialista di Zapatero e quello del Tripartit di Maragall), mentre in quest’ultimo biennio la crisi economica ha riportato la Spagna indietro di almeno due decenni e a Madrid e a Barcellona governano due partiti di destra (quello del PP di Rajoy e quello di CiU di Mas) che, sebbene convergano sulla ricetta neoliberista per uscire dalla crisi, divergono sul referente nazionale: un partito ferocemente spagnolista favorevole a politiche di ricentralizzazione da un lato e un partito catalanista convertitosi ormai dichiaratamente in indipendentista dall’altro lato. Costruire dei ponti in questa situazione è evidente che è davvero difficile.

Il 2012: da un nuovo “patto fiscale” all’indipendenza

La manifestazione dell’11 settembre 2012 non è stata casuale. Nell’estate del 2012 il governo di Mas aveva chiesto una revisione del “patto fiscale” che avvicinasse lo status della Catalogna a quello della Navarra e dei Paesi Baschi, due regioni che godono di un sistema speciale con un’autonomia integrale in materia fiscale e tributaria. La decisione di Mas si deve al giro politico intrapreso da CiU dopo lo “smacco” della sentenza del TC sul nuovo statuto d’autonomia catalano – anche allo scopo di ritornare al governo dopo sette anni di opposizione, giocando dunque la carta, sempre vincente, del nazionalismo – e soprattutto alla drammatica situazione economica che stava vivendo la Generalitat catalana.

Teniamo presente che la Catalogna, con una popolazione di 7,5 milioni di abitanti (su un totale di 47 milioni di abitanti in Spagna), è uno dei motori politici del paese iberico (18,7% del PIL totale spagnolo) e, insieme a Lombardia, Baden Württemberg e Rodano-Alpi, è considerato uno dei quattro motori della UE. Nel 2013 il PIL pro capite catalano era di 27.298 euro, parecchio più alto di quello medio spagnolo (22.278 euro). In passato il nazionalismo catalano non aveva utilizzato la carta economica nelle sue rivendicazioni, se non moderatamente. Questo cambio di discorso è databile al triennio 2010-2012 quando il concetto di expolio fiscal (depredazione fiscale) e frasi come “Madrid ens roba” (Madrid ci deruba) – che agli italiani ricorda, non a torto, il leghista “Roma ladrona” – sono diventate di uso comune. La richiesta infatti di un nuovo “patto fiscale” coincide nel tempo – la fine di luglio 2012 – con un’altra richiesta del governo di Mas al governo spagnolo: quella del salvataggio finanziario attraverso l’accesso al Fondo de Liquidez Autonómico (FLA) creato in quelle stesse settimane per concedere crediti alle regioni che, a causa del loro indebitamento e delle condizioni stabilite dalla BCE per dare luce verde al prestito di 100 miliardi di euro accordato alla Spagna, non potevano più accedere ai mercati internazionali. A fine agosto Artur Mas chiede 5 miliardi di euro al FLA per evitare la bancarotta. Tra 2012 e 2013 ne ottiene ben 16,7, pari al 42% del totale di cui è stato dotato il FLA. Ma esiste questo expolio fiscal ai danni della produttiva Catalogna? O è un inganno utilizzato dal governo di Mas per salvare la faccia dopo un biennio di drastiche politiche di austerity e scaricare la responsabilità della crisi su altri (Madrid e/o Bruxelles)?

La questione è indubbiamente complessa: dipendendo dalla metodologia di calcolo dei divari regionali, la Catalogna risulta più o meno sfavorita. La Generalitat catalana utilizza il metodo del saldo fiscale che stabilisce un deficit fiscale di oltre 16 miliardi di euro per l’anno 2009 e di poco più di 15 miliardi per il 2011 (circa l’8% del PIL), ma altri calcoli, come quello che segue la metodologia spesa-beneficio elaborato nel luglio di quest’anno da Ángel de la Fuente, Ramón Barberán e Ezequiel Uriel, incaricati dal governo spagnolo dello studio, stabiliscono che il deficit fiscale catalano sia poco più della metà (8,45 miliardi di euro per l’anno 2011, ossia il 4,35% del PIL) di quello rivendicato dalla Generalitat, e che altre regioni come Madrid, Valencia e le Baleari abbiano un deficit fiscale più sfavorevole. In questo caso, i divari regionali interni alla Spagna non si discostano da quelli degli altri paesi della UE. Anzi, secondo calcoli dell’Eurostat, la Spagna si trova in quattordicesima posizione su un totale di 28 paesi in quanto a divari regionali, in una posizione migliore rispetto al Regno Unito, alla Francia, alla Germania e all’Italia. Ossia, come sostiene il giornalista Xavier Vidal-Folch, la situazione non è così nera come la si dipinge e ci sono ampi margini per una correzione del sistema finanziario regionale spagnolo per equilibrare le regioni sfavorite senza arrivare a decisioni radicali (la ricentralizzazione o l’indipendenza). Soprattutto se si tiene conto che il debito pubblico della Generalitat catalana è cresciuto esponenzialmente nel primo biennio del governo di Mas (2010-2012), sfiorando i 51 miliardi di euro (pari al 25% del PIL catalano, quando nel 2008 era meno della metà) e relegando la Catalogna tra le prime tre regioni più indebitate della Spagna (insieme a Castiglia La Mancia e Valencia).

Tenendo conto di tutto ciò, che la critica situazione economica e finanziaria catalana sia dovuta solo al deficit fiscale nei confronti delle altre regioni spagnole e che esista un expolio fiscal da parte dello stato centrale è come minimo alquanto dubbio.

La manifestazione dell’11 settembre del 2012 ha imposto una accelerazione dell’agenda del governo catalano: mentre questo parlava di un migliore “patto fiscale”, un milione di persone in strada chiedeva l’indipendenza. Mas ha cercato scaltramente di cavalcare l’onda nazionalista, ma senza raggiungere l’obiettivo che si era prefissato. L’ultimo tentativo di trovare un accordo con Rajoy sul “patto fiscale” – l’incontro di Madrid del 20 settembre successivo – ha visto l’opposizione frontale del presidente del governo spagnolo. Il 25 settembre Mas ha sciolto il Parlamento catalano e ha convocato nuove elezioni, con l’obiettivo di ottenere la maggioranza assoluta e di poter gestire così la questione nazionale e la questione sociale senza dover trovare accordi parlamentari. La campagna elettorale che ne è seguita è stata particolarmente dura con la creazione, mantenuta poi nel biennio successivo, di un discorso polarizzato sia a nord che a sud dell’Ebro. La propaganda martellante sui mezzi di informazione catalani a favore di CiU non è servita ad evitare uno “strepitoso fallimento” – come titolò il catalanista quotidiano La Vanguardia – del partito di Mas alle elezioni del 25 novembre 2012, che perse 12 deputati (passando da 62 a 50 seggi) a favore dell’indipendentismo di centro sinistra di ERC (da 10 a 21 deputati) e a una cristalizzazione del voto dei partiti spagnolisti (PP e Ciutadans, che hanno sommato 28 deputati), da allora, prendendo a prestito un termine usato in altre latitudini, definiti “unionisti”. Le elezioni del 25 novembre del 2012 hanno anche confermato il declino del PSC (da 28 a 20 deputati), lo stallo di ICV-EUiA (da 10 a 13 deputati) e l’ingresso in Parlamento di una formazione independentista pancatalanista – ossia, favorevole non solo all’indipendenza della Catalogna, ma anche alla creazione dei cosiddetti Paesi Catalani, i territori storicamente catalofoni (la Catalogna, Valenza, le Baleari, il Rossiglione e la città di Alghero) – e anticapitalista come la CUP (Candidatura d’Unitat Popular) con 3 seggi.2

2013 e 2014: verso il choque de trenes

La nuova situazione venutasi a creare dopo le elezioni del 25 novembre 2012 ha obbligato CiU a cercare un accordo con un’altra forza politica. Scartata l’opzione di un appoggio esterno del PP, come nella prima legislatura di Mas (2010-2012), per le tensioni create dalla questione catalana – per quanto nel comune di Barcellona e in altre amministrazioni locali il PP abbia continuato a sostenere i governi di minoranza di CiU e CiU abbia fatto spesso lo stesso nel Parlamento spagnolo, dove però il PP detiene la maggioranza assoluta –, Artur Mas si è decantato per un patto di governo con ERC, reso pubblico il 19 dicembre 2012. Si formava così una specie di “fronte patriottico” in cui era ERC – che con il nuovo segretario generale Oriol Junqueras aveva trovato di nuovo una unità e un’identità, scegliendo chiaramente la vertente nazionale e togliendo di mezzo la vecchia dirigenza (Carod Rovira, Puigcercós…) più sensibile al discorso sociale – ad avere il coltello dalla parte del manico, giocando sull’ambiguità di essere al governo e all’opposizione allo stesso tempo. ERC, il cui obiettivo principale e dichiarato senza sotterfugi era l’indipendenza della Catalogna, ha così potuto appoggiare le finanziarie più dure della storia della Catalogna democratica e difendere formalmente il Welfare state che quelle finanziarie stavano distruggendo. Il “patto di governo” firmato da Mas e Junqueras era un’ulteriore sconfitta per CiU che accettava parte del programma elettorale di ERC, tra cui soprattutto la convocazione di un referendum sull’indipendenza entro il 2014. La funzione di partito-cerniera tra Barcellona e Madrid giocato per anni da CiU non trovava più uno spazio politico con la sua conversione in un partito indipendentista, facilitando il sorpasso di ERC, come dimostrato nelle recenti elezioni europee di maggio (ERC al 23,7% e CiU al 21,8%). Un sorpasso senza dubbio storico, visto che ERC non era mai più stato il partito più votato in Catalogna dai tempi della Seconda Repubblica.

I primi ventun mesi del secondo governo Mas (dicembre 2012 – settembre 2014) hanno visto una profonda accelerazione di quello che si è chiamato proceso soberanista. Mentre a Barcellona si sono tentate quasi tutte le vie legali per poter celebrare un referendum e si è lavorato alla costruzione di alcune alquanto fantomatiche “strutture di stato” in vista di una futura Catalogna indipendente e di un ampio fronte patriottico che includesse anche i partiti dell’opposizione, a Madrid si è risposto solo con l’intimidazione e la minaccia, fondate unicamente sulla difesa dell’unità della patria e sull’inviolabilità della costituzione. Una costituzione apparentemente non riformabile, per quanto nell’agosto del 2011 PSOE e PP hanno introdotto, in forma express e obbedendo al diktat dell’Unione Europea, il pareggio di bilancio riformando l’articolo 135 della costituzione, in modo simile e oscuro a quanto avvenuto in Italia con il governo Monti nella primavera del 2012. Un discorso – quello dell’inviolabilità della costituzione – ribadito non solo da Rajoy, dal PP e dalla stampa di destra (ABC, La Razón, El Mundo), ma anche dal Re, dalla Conferenza Episcopale spagnola e da vasti settori del PSOE, appoggiati dai mass media progressisti come El País.

Questo discorso si accompagna all’idea condivisa da molti a Madrid che quello catalano non è altro che un “soufflè” che prima o poi si sgonfierà; idea che è alla base della strategia di Rajoy giocata sull’assenza di qualunque passo per un possibile dialogo o di qualche proposta politica per risolvere la situazione.

Poche le voci fuori dal coro: un timido tentativo del segretario del PSOE Rubalcaba per una riforma della costituzione e la trasformazione dello Stato delle Autonomie in un sistema effettivamente federale – che ha trovato l’opposizione di gran parte del suo stesso partito, soprattutto della potente federazione andalusa –, le dichiarazioni di Cayo Lara, segretario di Izquierda Unida (IU), alcuni tentativi di costruire dei ponti da parte del segretario dei democristiani catalani (UDC) Duran i Lleida, alcuni manifesti di intellettuali spagnoli favorevoli ad una risoluzione dialogata della questione catalana, come il recente “Una Spagna federale in un’Europa federale” del luglio 2014 , e poco altro. In tutto questo periodo, dove il dialogo sarebbe stato quanto mai necessario, sono stati solo due gli incontri (29 agosto 2013 e 30 luglio 2014) tra Rajoy e Mas, che hanno ribadito quel che già si sapeva.

Il 23 gennaio 2013 il Parlamento catalano approvava una dichiarazione in cui si definiva la Catalogna un “soggetto politico e giuridico sovrano” e dava il via a un processo per rendere realtà il “diritto di decidere” del popolo catalano utilizzando “qualunque via legale esistente”. Non era questa la prima dichiarazione in tal senso – ve n’erano state altre nel 1989, nel 1998, nel 2010 en el 2012 –, ma sicuramente la più radicale. Mas e Junqueras erano riusciti ad ottenere l’appoggio, oltre che dei propri deputati, anche di quelli di ICV-EUiA, di uno della CUP e di cinque socialisti “ribelli”, sommando in totale 85 voti a favore della dichiarazione, 41 contrari e 2 astenuti. Meno di due mesi dopo, il 13 marzo, ottenevano l’appoggio anche di tutti i deputati del PSC in una dichiarazione in cui si chiedeva al governo catalano e a quello spagnolo di iniziare un dialogo per trovare la via legale adatta al fine di celebrare il referendum di autodeterminazione (104 voti favorevoli, 27 contrari e 3 astenuti). Pochi giorni prima una proposta simile presentata al Parlamento spagnolo aveva causato una frattura tra PSOE, che insieme a PP e UPyD aveva votato contro, e PSC, che aveva votato a favore insieme agli altri partiti catalani (CiU, ERC, ICV-EUiA), a quelli baschi e galiziani e a Izquierda Unida. Una situazione che si sarebbe ripresentata il 29 ottobre del 2013 quando il partito di centro-destra Unión Progreso y Democracia (UPyD), guidato dalla ex socialista Rosa Díez e ferocemente anticatalanista, aveva fatto approvare una mozione che proclamava la sovranità indivisibile del popolo spagnolo e la “fallacia” del diritto di decidere. Anche in quel caso il fronte del sì e del no erano rimasti gli stessi (265 voti a favore della mozione di UPyD, 38 voti contro e 13 astensioni), con la sola differenza che il PSC per non rompere definitivamente con il PSOE e non perdere la faccia in Catalogna si era astenuto.

Dopo il ricorso presentato dal governo Rajoy, la dichiarazione del 23 gennaio è stata prima sospesa dal Tribunale Costituzionale spagnolo (8 maggio 2013) e poi considerata all’unanimità incostituzionale in una sentenza del 25 marzo 2014, per quanto il TC abbia espresso, sempre all’unanimità, la non incostituzionalità della possibilità di convocare un referendum all’interno delle leggi vigenti e nel rispetto della costituzione. Nei mesi successivi, comunque, il parlamento catalano ha approvato altre risoluzioni che vanno nella stessa direzione, come quelle del 27 settembre 2013.

L’operato del governo catalano non si è però limitato a delle dichiarazioni di principio: tra l’inverno e l’estate del 2013 ha creato o ha promosso la creazione di una serie di organismi che possano favorire il cammino della Catalogna verso l’indipendenza. L’11 aprile si è costituito il Consiglio di Consulenza per la Transizione Nazionale (CATN, nelle sue sigle in catalano), presieduto dal giurista ed ex vicepresidente del TC Carles Vives Pi-Sunyer e formato da 14 esperti con un profilo indipendentista, come l’economista Germà Bel, il sociologo Salvador Cardús, il politologo Ferran Requejo o la polemista e biografa ufficiale di Artur Mas Pilar Rahola. Dipendente direttamente dal dipartimento della Presidenza della Generalitat, il CATN è stato incaricato di redigere 18 rapporti per studiare e preparare lo scenario post-indipendenza (dall’esercito alle telecomunicazioni, dalla costituzione alle relazioni internazionali fino alle relazioni economiche con la Spagna), che saranno pubblicati nel prossimo mese di ottobre, sul modello del libro bianco reso pubblico dal governo scozzese nel novembre del 2013.

Il 26 giugno 2013 si è poi costituito il Patto Nazionale riguardo al Diritto di Decidere (Pacte Nacional pel Dret a Decidir, in catalano) con l’obiettivo di trovare la maniera di realizzare il referendum. Nel suo manifesto di fondazione si specifica che “la Catalogna è una nazione e tutte le nazioni hanno il diritto di decidere il proprio futuro politico”. Oltre allo stesso Parlamento di Catalogna e alle istituzioni catalane, ne fanno parte alcune centinaia di organizzazioni, dai partiti catalanisti (ma non il PSC) ai sindacati (tra cui anche UGT e CC.OO.) fino a organizzazioni impresariali, associazioni cittadine e altri agenti sociali. Già prima, l’8 maggio 2013, si era creata la Commissione parlamentare riguardo al diritto di decidere, presieduta dalla presidentessa del Parlamento catalano, Nuria de Gispert, e formata da tutti i partiti catalanisti, incluso in questo caso anche il PSC, ma non logicamente i due partiti spagnolisti (PP e Ciutadans).

La Diada dell’11 settembre 2013, con la partecipata catena umana di 400 km, ha dato ancora maggiore impulso al processo indipendentista. Il 12 dicembre, dopo lunghe negoziazioni, si è resa pubblica la decisione del governo catalano, appoggiato, oltre che da ERC, anche da ICV-EUiA e dalla CUP, ma non dal PSC, sulla data (9 novembre 2014) e la doppia domanda del referendum – a cui, si dice, potranno votare i maggiori di 16 anni e gli stranieri residenti in Catalogna da almeno un anno –: “Vuoi che la Catalogna diventi uno stato? In caso affermativo, vuoi che questo stato sia indipendente?” Una domanda particolare e ambigua perché a differenza del caso scozzese non è una domanda secca – “Dovrebbe la Scozia essere uno stato indipendente?” – e decisa d’accordo con il governo centrale, ma è una doppia domanda che è stata decisa unilateralmente dal governo catalano e resa pubblica alla stampa ancor prima che al governo spagnolo e che nasconde una realtà ben più complessa.

Secondo una recente inchiesta del Centre d’Estudis d’Opinió (CEO), in Catalogna il 45% della popolazione sarebbe favorevole all’indipendenza e il 26% sarebbe decisamente contraria (un 23% favorevole al mantenimento dell’autonomia, magari ampliandola, e un 3% favorevole ad una limitazione dell’autonomia attuale), mentre oltre il 20% sarebbe favorevole ad un’opzione federale. Una domanda con tre risposte (indipendenza/soluzione federale/mantenimento dello status quo) sarebbe stata dunque molto più realistica e corretta, come hanno rilevato non pochi giuristi, ma sarebbe stata inaccettabile per ERC e controproducente per il governo Mas. La doppia domanda è stata una mossa calcolata e, come ha notato il vicedirettore de La Vanguardia Enric Juliana, “all’italiana” per fare in modo di avere l’appoggio anche di ICV-EUiA, partito da sempre federalista. Ma è stata anche una decisione che creerà quasi sicuramente una situazione di stallo: è probabile che oltre il 50% dei catalani – nel caso in cui il referendum si celebri – voti sì alla prima domanda, ma non alla seconda. Si verrebbe a creare una soluzione surrealista dove si vuole uno Stato, ma non uno Stato indipendente. Un sondaggio del CEO del 30 aprile 2014 dimostrava difatti che alla prima domanda voterebbero a favore il 57,6% dei catalani, mentre alla seconda solo il 47,1%.

Nel frattempo, da parte del governo catalano, si è tentato di trovare una soluzione legale per fare in modo che si possa celebrare il referendum. Il 16 gennaio 2014 il Parlamento catalano ha approvato una risoluzione (87 voti a favore: CiU, ERC, ICV-EUiA e tre deputati del PSC; 43 voti contro: PSC, PP, Ciutadans; 3 astensioni: CUP) in cui si reclama formalmente al Parlamento spagnolo la competenza per “autorizzare, convocare e celebrare un referendum di consultazione sul futuro politico della Catalogna”. Il successivo 8 aprile il Parlamento spagnolo ha bocciato (299 voti contrari e 47 favorevoli) tale richiesta del Parlamento catalano, il quale ha iniziato a elaborare una propria Ley de consultas per permettere la celebrazione di un referendum formalmente non vincolante. Il 22 agosto il Consiglio delle garanzie statuarie catalano (Consejo de garantías estatutarias de Catalunya), creato nel 2007 e i cui nove membri sono nominati dal Parlamento catalano, ha considerato legale per 5 voti a 4 la ley de consultas, che nei prossimi giorni (16-18 settembre) sarà approvata dal Parlamento catalano. A quel punto si verrà a creare un’altra situazione piuttosto complessa: Artur Mas firmerà la legge, dando ufficialmente il via all’organizzazione del referendum (non vincolante), ma il governo di Mariano Rajoy, come ha già dichiarato, farà immediatamente ricorso al Tribunale Costituzionale e utilizzerà “tutti i meccanismi” per bloccare il referendum. Il tutto condito dalle continue dichiarazioni di rappresentanti europei che in varie occasioni nell’ultimo anno e mezzo hanno dichiarato che una Catalogna indipendente sarebbe esclusa dall’Unione Europea (oltre che dalla NATO). I tentativi del governo catalano di “internazionalizzare” la causa catalana – attraverso la creazione di Diplocat, una specie di agenzia diplomatica basata sul volontariato, e attraverso la lettera inviata da Mas ai 28 capi di stato della UE il 20 dicembre 2013 – non hanno ottenuto i risultati sperati, per quanto l’attenzione della stampa internazionale è comunque rivolta alla questione catalana.

Un’altra situazione di stallo che non può far altro che fomentare le tensioni in un momento del tutto particolare, con la “Diada definitiva” di giovedì scorso che ha occupato le strade di Barcellona e con il referendum scozzese del 18 settembre dietro l’angolo.

Quali sono i possibili scenari futuri?

Le prossime settimane potrebbero stravolgere completamente il quadro appena tracciato, ma i possibili scenari futuri sono essenzialmente quattro.

Il primo è una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del governo catalano: Mas ha recentemente messo le mani avanti dichiarando che una Catalogna indipendente non riconosciuta da nessuno servirebbe a poco, ma ERC e la CUP stanno spingendo per questa soluzione. Come reagirebbe in questo caso il governo spagnolo? Quali sono i “meccanismi” di cui parla Rajoy? L’intervento della forza pubblica? La sospensione dell’autonomia catalana?

Il secondo scenario possibile è un mantenimento dello status quo senza che si celebri il referendum e senza alcuna modifica della costituzione: il governo spagnolo vincerebbe il muro contro muro con una prova di forza, le cui conseguenze sulla società catalana e quella spagnola sarebbero tutte da verificare.

Il terzo possibile scenario è una prova di forza del governo catalano che convocherebbe il prossimo 9 novembre un referendum non vincolante – il punto sta capire in che modo –, il cui risultato potrebbe portare all’apertura di un vero dialogo con Madrid. Una riforma della costituzione? Una sorta di “patto fiscale” sul modello basco e navarro per la Catalogna? L’apertura di un vero dibattito per la creazione di un federalismo asimmetrico (che favorisca le nazionalità storiche e annulli il café para todos)?

Il quarto possibile scenario, che è anche il più probabile, è che il governo catalano, vista l’impossibilità di convocare un referendum in modo legale, sciolga il Parlamento e convochi nuove elezioni “plebiscitarie”: l’obiettivo di CiU è di creare una lista unica catalanista, ma né ERC né ICV-EUiA hanno dato segnali positivi in questo senso. Il risultato delle elezioni – nel caso probabile in cui non si formasse una lista unica catalanista – creerebbe una situazione ancora più complessa, dove ERC potrebbe essere il partito più votato, ma ben lontano dalla maggioranza assoluta, e dove la tensione nazionalista arriverebbe a punti di esasperazione.

Che ne dica Rajoy, il soufflè catalano non sembra proprio sgonfiarsi e la politica del muro contro muro non farà altro che portare a quello che si è definito un vero e proprio choque de trenes (scontro di treni). Ossia, un alquanto probabile punto di non ritorno.

di Steven Forti
(ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa e presso il CEFID dell’Universitat Autònoma de Barcelona)

 

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