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Blues: Herbie Hancock e i cacciatori di teste

Herbie Hancock inizia a suonare il piano all’età di appena sette anni e, manco a dirlo, si dimostra dai primi passi un bambino prodigio. Ma se continuassi su questa falsariga, con note biografiche e qualche citazione, dimostrerei di aver letto qualche rivista o sito web, ma non vi direi niente di nuovo.

Herbie Hancock è un amore a prima vista, o lo si odia per la perfezione del suono e della ricerca, o lo si ama per gli stessi motivi. Nessuno è mai riuscito a spiegare bene a parole la genialità, e forse l’unico che vi è andato vicino è stato Monicelli con Amici Miei ("cos’è il genio? il genio è fantasia, intuizione, decisione e rapidità di esecuzione"), ma non basterebbe raccontare la storia della Tour Eiffel a far capire quanto le avanguardie siano sempre incomprese.

Per cui non serve a molto parlare e nemmeno scrivere, almeno in questo caso.
Non credo che il buon Herbie sia da qualche parte ad aspettare che qualcuno lo presenti. O quando succede, forse, se la ride sotto per le parole usate.





Una sola cosa, e questa sono in grado di dirla: il suono, la musica, è un linguaggio. Ci si può fermare ai vocaboli di tutti i giorni, ci si può accontentare di parlare del più o del meno con l’amico incontrato per sbaglio mentre si fa la spesa. Oppure si può cercare di spingerlo fino in fondo, alla ricerca di una sonorità mai ascoltata e per questo incomprensibile, o forse, più vicina a tutti di quanto si creda. In due parole: Watermelon Man, dall’album "Head Hunters", cacciatori di teste.

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