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Blitz falliti, quando anche in Italia rischiammo la tragedia

Esiste anche un precedente italiano della brutta faccenda dell’autobus sequestrato a Manila da un ex agente di polizia. La notte del 30 novembre 2000 Giuseppe Rivelli, 36 anni, ex poliziotto dell’Ufficio pensioni del Viminale, armato di pistola, dirottò un autobus della linea 628, a Roma, prendendo in ostaggio l’autista, Claudio Candidi. Al termine di un inseguimento, la vettura venne accerchiata dalle volanti. Una volta salito sul 628, nei pressi di Viale delle Terme di Caracalla, Giuseppe Rivelli aveva puntato la pistola contro l’autista, intimandogli di portarlo dal capo della polizia Gianni De Gennaro per la discussione di alcuni problemi professionali: era stato trasferito da poco dal servizio scorta a quello pensioni. Ma questo trasferimento gli era piaciuto ben poco, al punto da voler andare a protestare direttamente con il capo della polizia. Come nel caso filippino, anche questo sequestro fu seguito in diretta dalle telecamere. Dopo un tentativo di mediazione delle forze dell’ordine, l’agente tentò di costringere l’autista a forzare un blocco statale. Questi si rifiutò, reagendo. E fu raggiunto all’addome da cinque colpi di pistola. Solo allora gli agenti appostati fuori dal bus intervennero e spararono contro il loro collega, ferendolo. La vicenda si concluse bene (se per bene si intende che nessuno ci lasciò la pelle), ma molti furono gli interrogativi che sollevò: le stesse domande che ci facciamo oggi, a poche ore dalla fine cruenta del blitz di Manila.
 
Perché sia nell’una che nell’altra vicenda, a saltare agli occhi è l’immobilismo, la lentezza, e verrebbe da dire l’impreparazione dei gruppi d’assalto appostati ai lati dell’autobus. Ore intere passate, armi in pugno, nei pressi del bus. Tentativi poco convinti di salire a bordo. Nessun utilizzo di granate stordenti. Negoziati improvvisati. E in tutti e due i casi, l’elemento unificante è dato dalla natura del sequestratore: un collega degli agenti che dovrebbero intervenire.
 
Quella dei blitz contro i sequestratori è un’arte raffinata, e altamente tecnica, di cui in Italia abbiamo punte d’elite rappresentate dai reparti d’assalto dei Gis (Gruppo Intervento Speciale) dei carabinieri, e dei Nocs (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della polizia di stato. Uomini preparati e capaci di neutralizzare le minacce nel giro di pochi minuti. È però evidente l’uso di due pesi e due misure, in casi come questi, in cui dall’altro lato della barricata c’è un poliziotto, un collega, addirittura un amico. Sia nel caso del bus di Manila che in quello del 628 italiano, la gestione dell’ostile è stata pressoché ridicola, superficiale, approssimativa. E ci sarebbe anche da ridere, se la cosa non avesse comportato il ferimento (nel caso italiano), o addirittura la morte (in quello filippino) degli ostaggi.
 
Che cosa fare in casi come questi? Sarebbe di sicuro consigliabile la gestione del blitz a reparti non riconducibili a quelli del sequestratore. Per esempio, all’esercito, con le squadre degli incursori Col Moschin o Comsubin: squadre d’assalto altrettanto preparate, ma psicologicamente ed emotivamente meno implicate – nel caso di un sequestratore appartenente alle forze dell’ordine – rispetto ai reparti di polizia e carabinieri. Per scongiurare, come ebbe a dire il giornalista Simon Reeve a proposito del blitz fallito per liberare gli undici atleti israeliani ostaggi del commando terrorista di Settembre Nero alle olimpiadi di Monaco 1972, “un fallimento criminosamente disorganizzato”.

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