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Barletta: una tragica lezione sullo stato della nostra economia

Durante il crollo della palazzina, molti italiani sono rimasti impressionati, più che dalla loro morte, dalle condizioni in cui vivevano e lavoravano le operaie di Barletta.

Pare che solo ora si sappia che nel nostro Paese, specie nel Sud, vi sono uomini e donne che lavorano in nero per paghe miserabili. Lascia soprattutto perplesso lo sconcerto di alcuni settori della nostra società: in fondo a Barletta si stavano applicando le ricette che, secondo loro, avrebbero dovuto rilanciare l'economia italiana.

Si deve contenere il costo del lavoro? Quelle donne guadagnavano tre euro e novanta centesimi l'ora. Non si vogliono impedimenti burocratici? In quel posto non credo ci fosse un solo documento in regola. Tutto come nei sogni di una parte del mondo imprenditoriale, anche meglio.

Eppure, e qui viene il brutto, anche così a Barletta i laboratori chiudono; anche lavorando con quei costi e in quelle condizioni non si riesce a reggere la concorrenza dei paesi emergenti.

Il problema è che in quelle zone si fanno prodotti di qualità corrente e senza nessuna particolare caratteristica (magliette che possono essere cucite lì come in Cambogia), prodotti che nessun Paese del primo mondo si può permettere di fare da decenni.

E’ il problema che ha molta della nostra industria che, unica tra quelle dei paesi avanzati, opera spesso nei settori più tradizionali e ad alta intensità di lavoro.

L’Italia uscirà dalla sua trentennale stagnazione solo se cambierà profondamente la propria struttura produttiva; se le singole aziende riusciranno a riposizionarsi con successo nel segmento più alto dei propri mercati e soprattutto se riusciranno ad entrare in settori con margini di profitto più elevati.

Restare immobili, come hanno fatto dagli anni 70 ad ora, continuare a fare le cose di sempre accontentandosi di guadagnare meno e di pagare meno i propri dipendenti, porterà ineluttabilmente al generale impoverimento del paese.

Anche con una manodopera a costo cinese, (dovrebbero capire anche i nostri imprenditori più testardi), non si può competere con i cinesi. Loro avranno sempre le economie di scala di chi ha dalla propria un mercato interno grande venti e più volte il nostro e la possibilità d’investimento di aziende grandi decine o centinaia di volte le nostre.

Di più: il rilancio della nostra economia, per favore non svenite, passa da un deciso aumento dei salari e quindi, inutile raccontarsi frottole, del costo del lavoro. 

Le aziende italiane sono, in genere, ancora molto competitive con i costi attuali.

In questi mesi il nostro paese sta aumentando più d’ogni altro la propria quota d’esportazioni (più della stessa Germania), ma sono proprio i bassi salari dei suoi lavoratori a strangolare la sua economia, causa principale della peculiare crisi. Mentre le nostre imprese conquistiano il mercato americano o asiatico, stanno perdendo quello più importante, ovvero il nostro mercato interno, il quale si sta costantemente riducendo per dimensioni e capacità d'acquisto.

Prima d’ogni altra cosa, prima di qualunque riforma, la nostra imprenditoria deve trovare una propria via all’innovazione; tutto il resto, compresa la semplificazione degli adempimenti fiscali, è certo importante, ma non determinante. Le nostre piccole e medie aziende, va detto subito, sono eccezionalmente capaci.

Sono strutture snelle, poco burocratizzate (le loro controparti straniere, al confronto, sembrano dei Ministeri), che riescono a rimanere sui mercati, e spesso a dominarli, grazie ad una capacità e ad una prontezza d’adattamento straordinarie.

L’innovazione di ciclo, l’introduzione di tecniche e macchinari nuovi nella realizzazione di prodotti tradizionali, non è per loro un problema: è proprio grazie a questa che sono riuscite a stare a galla finora. I loro punti deboli sono, come spesso accade, l’esatto rovescio della medaglia.

Piccole, di solito legate tra loro in lunghe filiere produttive, non hanno accesso diretto ai mercati e mancano delle risorse interne per fare ricerca ed innovazione di prodotto.

Anziché limitarsi a ripetere gli slogan di sempre, prendersela con lo Stato per questo o quell’altro motivo (hanno spesso ragione, intendiamoci, ma poco possono fare in questo senso), i nostri imprenditori dovrebbero chiedersi in quale modo potrebbero cambiare questo stato di cose senza snaturare se stessi e le proprie aziende.

Appare evidentissimo che questo gli sarà possibile solo se impareranno a cooperare meglio tra loro e se riusciranno a trovare, associandosi, quelle risorse per fare ricerca ed innovazione, sia dal punto di vista del marketing, sia da quello tecnico che non hanno individualmente.

Devono trasformare le associazioni di categoria da inutili strutture di pressione politica, che poco producono tranne occasioni di convivialità, in vere e proprie cooperative d’imprese.

In un paese di distretti produttivi, pare impossibile che non vi sia, in ogni distretto, un centro di ricerca post-universitario demandato a studiare nuovi prodotti e nuove tecniche a beneficio delle imprese locali; che il destino di intere province dipenda dal fiuto di pochi imprenditori senza che vi sia un istituto in grado di produrre studi di mercato, specifici per il loro settore, che li aiutino a decidere; che i rapporti tra le imprese, dentro le varie filiere, si limitino a costanti liti su prezzi e tempi di consegna, senza il minimo tentativo di coordinare gli sforzi delle aziende in una ricerca della massima efficienza complessiva possibile.

Sono tutte cose che fuori d’Italia (penso al Nord Europa) si fanno e che contribuiscono alla competitività dei sistema economici assai più che la riduzione del costo del lavoro di qualche punto percentuale.

Si tratta di decidere una volta per tutte quale strada vogliamo seguire: se andare verso il Vietnam o verso la Danimarca.

Se non cambiamo, non riusciremo a fermarci neppure dove siamo: in quel limbo tra primo e secondo mondo dove, prima ancora della sua economia, è scivolato il Paese.

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