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Aziende italiane: il tempo delle mele è vicino?

Per un'azienda italiana, niente è più castrante che avere uno Stato che, da un lato, a parole, si auspichi il “laissez-faire” e che dall'altro, in pratica, invece, porti avanti quella del “futti, futti che Dio a penza a tutti!”. Che dire? Che fare? Ah beh, aspettare! Ci sono appena state le elezioni. Attendendo nuove sulla formazione del Governo, ci si augura che la “Terza Repubblica” opti per una regola fondamentale, id est: salvare le medie aziende. Come?

Stando a La Stampa, il mondo della media imprenditoria italiana naviga in un mare di melma; da un lato, è Repubblica a darne notizia – anche se eravamo in tanti ad averlo capito da un pezzo – la piccola azienda italiana sta andando a frasche, ossia sta scomparendo. Secondo l'organo scalfariano in dieci anni sono scomparse dieci aziende su quattro, - anche qui scopre l'acqua calda - ed in quelle che sono rimaste la qualità del servizio va a farsi benedire, mentre ciò che conta è solo il prezzo, che deve essere, naturalmente, il più basso.

In più, se le piccole aziende di quartiere tirano giù il bandone, ciò che è a rischio, non è solo lo stato delle medio-basse aziende cittadine, ma anche una certa salvaguardia del territorio e della sua rete socio-economico-culturale.

In breve, la nostra riflessione è questa: la gente sposta sempre più il proprio interesse verso i centri commerciali e le grandi aziende in genere, dove i consumi perenni e sempre più monopolizzati rischiano di far appiattire sempre di più, sia sul piano socio-culturale, sia su quello socio-economico, tutta la massa degli utenti, senza scelta, per via dei prezzi sempre più competitivi dei grandi gruppi, delle grandi aziende ed infine dei grandi centri commerciali e attività d'impresa; cosa ben più grave, ciò fa prefigurare una società megalopolitana che ruoterà attorno a pochi – o cospicui - poli commerciali, con una massa utente passiva ruotante attorno – mi si passi il termine – a pochi “feudatari di grande impresa”.

Uno scenario a dir poco devastante per lo sviluppo della libera impresa commerciale e non. Tale discorso, se si vuole, potrebbe applicarsi anche ad altri ambiti dell' media imprenditoria in tutti i campi.

D'altro lato, è il FQ che contribuisce a rendere il quadro molto più chiaro, quanto, altresì, devastante: stando al più giacobino, in senso buono, dei quotidiani - ma anche qui la cosa è risaputa da tempo - molte aziende si indebitano con le banche per pagare le tasse. Quasi il 65% delle medio-piccole aziende si indebita per rispettare le scadenze che puntualmente arrivano dal braccio secolare delle entrate dello Stato, ossia il fisco e affini. Imu, Irap, Irpef, contributi Inps e altre gabelle.



Il primo problema che emerge da ciò è che l'azienda, per pagare i debiti fiscali in questione non possa espandere il suo business, ma rimanere in una situazione di stallo; il secondo grande problema è invece quello che l'azienda veda pignorati i suoi immobili, e quant'altro, a fronte dell'impossibilità di saldare il dovuto; l'ultimo e annoso grave problema è che altri finanziamenti mettano l'azienda in una situazione di maggiore esposizione, ossia offrire maggiori garanzie per prestiti a tasso maggiore. Ergo, da ciò se ne deduce che, tra fisco e banche, la media piccola impresa soccombe con grave danno di tutti: degli imprenditori in questione, in primis; del PIL, in secundis; del tessuto socio-economico in ultimis.

Cionondimeno, emerge sempre di più un dato surreale, come è capitato ad un nostro diretto conoscente l'altra sera. Recatosi dal commercialista, la discussione cade su ciò che lo Stato deve ad una data azienda che vanta crediti per circa 200mila euro verso lo Stato medesimo, ma tale conto il Leviatano non lo salda, anzi, manda alla medesima gli aguzzini di Equitalia per il dovuto circa le gabelle e i contributi da versare nel tempo dovuto; beh, tanto per restare in tema, quale sarebbe la vostra reazione se vi si dicesse che la suddetta abbia dovuto esporsi con le banche per aver credito, pena il fallimento e il lastrico? Scene di ordinario declino economico in quel che fu il Bel Paese. Le aziende in questa condizione sono decine di migliaia.

Sperando che il cambiamento arrivi, un piccolo suggerimento: chiunque arrivi al timone della vecchia bagnarola, emetta titoli per raccogliere capitali da versare subito a chi è creditore verso lo Stato, per far ripartire tale attività produttiva, vero cuore pulsante della nazione. Non solo per amore di giustizia e sviluppo, ma soprattutto per impedire che questo paese si trasformi in un agglomerato di proletari poveri, senza classe media alla merce di pochi poli commerciali che alimentino la massa quasi come un organismo di redistribuzione, ma non caritatevole, con altri ben più gravi sviluppi altrove.

È inaccettabile che uno Stato moderno e organizzato, all'apice della civiltà, porti il proprio cuore pulsante allo sfinimento, al fallimento e al conseguente annullamento. Quando un sistema mette in una morsa, o ancora peggio, tra un'incudine, che è il fisco, ed un martello, che è il sistema bancario e finanziario, i membri del proprio sistema produttivo vuol dire che il declino, non è solo alle porte, ma è bell'e dentro.

Il futuro potrebbe esser ipotecato - altra grande scoperta - specie, in un momento in cui, non solo le aziende sono minacciate dallo Stato che cerca da queste il dovuto, mentre esso medesimo non dà ad esse ciò che deve loro, ma anche i filibustieri della finanza e del mondo bancario esercitano financo sul normale cittadino, quotidianamente, ricatti belli e buoni per cifre meno esose di quelle che debba o richieda un imprenditore.

Questo si richiede alla futura classe: tempo di agire con empatia, intelligenza e vigore per la salvaguardia del ceto medio e la promozione di quello basso a miglior censo. Il futuro nazionale e il peso internazionale dell'Italia giacciono anche in questo importante nodo! 

 

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