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Attila Berlusconi, Gengis Bossi e il deserto della Destra

Si può gia fare un bilancio di quel che B&B hanno rappresentato per l'Italia e per la destra: un disastro di proporzioni bibiliche.

Le ragioni che hanno portato alla nascita e al successo della Lega restano, come leghisti resteranno i duri e puri della sua base; per questo non credo affatto ad una subitanea morte politica d’Umberto Bossi e, tanto meno, del suo movimento. Penso, d’altra parte, e senza dover tirare in causa la cronaca giudiziaria, che le scelte compiute in questi anni dai suoi dirigenti, a cominciare dal peccato originale dell’antimeridionalismo, condannino la Lega, anche nel lungo periodo, a restare, al massimo, quel che è arrivata ad essere ora; il partito del più livido e rancoroso settentrione. E solo di questo.

Credo assai di più alla già avvenuta scomparsa politica di Silvio Berlusconi e, soprattutto, all’impossibilità per il suo partito di tornare a rappresentare la maggioranza relativa degli italiani. Dopo aver portato al potere il peggior personale politico che l’Italia abbia mai conosciuto, dopo aver dimostrato la più totale incapacità di fare altro che i privatissimi interessi del suo fondatore e delle sue aziende, il PdL non ha neppure dei valori a cui richiamarsi; non ha più sogni, prima che progetti politici, da vendere. Lo ha capito anche un politico che non pecca certo di genialità come Angiolino “Starace” Alfano, che sta provando ad aggrapparsi ai temi più classici cari (lo so, pare una barzelletta) all’elettorato cattolico. Uno sforzo che non credo possa evitare al PdL di ridursi,  in un futuro per nulla lontano, ad un partito non troppo più grande della Lega e, come questo, di fedelissimi; al Capo, in questo caso, perché d’idee in cui credere, anche con la minuscola, non ve ne sono.

Non è  ancora venuto il momento di scrivere il coccodrillo per Umberto Bossi, dunque, ed è già passato quello per fare lo stesso per Silvio Berlusconi  (la data della sua morte politica? L’otto maggio 2008, data delle presentazione del suo cabarettistico governo), ma si può già fare un bilancio di quel che hanno rappresentato per l’Italia e, in particolare, per la sua destra: un disastro di proporzioni bibliche.

Disastro in termini economici per il Paese, dopo un ventennio perduto, e disastro elettorale per la destra. Disastro, si badi bene, già avvenuto.

Chi ancora crede nella genialità di Silvio Berlusconi, nel suo carisma o semplicemente nella sua capacità di comunicatore, deve solo confrontate i dati delle ultime elezioni della Prima Repubblica con quelli del suo ultimo “straordinario” successo elettorale per ricredersi. Nonostante l’assoluto dominio delle televisioni, nonostante l’impopolarità creata ad arte del precedente governo Prodi, quasi fosse un vero e proprio Attila della “non sinistra”, Berlusconi è riuscito a ridurre  il 60% di consensi di cui godevano il pentapartito e il Movimento Sociale, di cui avrebbe quasi automaticamente ereditare l’elettorato,  ad un miserabile 40% assai scarso; quel che arrivava a prendere, da sola, la vecchia DC degli anni ’70.

E Umberto Bossi? A cosa è valso tutto l’acume politico di cui tanti lo accreditano?  A passare dallo 8,7% dei voti del 1992 allo 8,3% del 2008. Un risultato da  Genghis Khan del federalismo, considerati quanti italiani, al Sud come al Nord, sono insoddisfatti dello stato centrale; tanti da costituire un bacino elettorale  di dimensioni doppie o triple di quello sfruttato dalla Lega.

Bastano questi dati, senza dover chiamare in causa la senilità di uno o le vicissitudini dei famigli dell’altro, per affermare il totale fallimento di Berlusconi e di Bossi e, più in generale del “leaderismo”, per usare un termine orribile quanto il concetto che rappresenta, della Seconda Repubblica.

Non è il solo settentrione a trovarsi, di fatto, privo di rappresentanza, come sostiene oggi Ilvo Diamanti, su Repubblica, nel suo articolo dedicato alla crisi della Lega; è l’intero Paese, la maggioranza assoluta dei suoi elettori, che è in questa condizione da due decenni.

L’unico partito ad essere cresciuto davvero  in questo periodo, infatti, è stato quello di chi non vota, passato dal 17% del 1992 (si era in piena operazione mani pulite; ancora nel 1987 votata quasi il 90% degli aventi diritto) al 23% del 2008.

Milioni d’italiani che hanno smesso di votare e altri milioni che hanno continuato a farlo per inerzia, turandosi il turabile, scegliendo il meno peggio di un’offerta politica che consideravano assolutamente inadeguata.

Milioni d’italiani che mentre il PD, pur con tutti i suoi problemi, sta trasformandosi in un partito socialdemocratico come tanti altri d’Europa, attendono quel che alla nostra politica è sempre mancato: un partito liberaldemocratico, magari federalista, che sia l’espressione non di questo o quel capo, ma di un progetto politico alternativo  a quello della sinistra.

Non un partito confessionale, non una nuova DC anacronistica nella nostra società laica e multi culturale, ma un soggetto politico che recuperi il buono, che pure v’è stato, anche di quell’esperienza politica, oltre a raccogliere  l’eredità di quella destra liberale che nel nostro paese, purtroppo, è sempre stata numericamente assai poco rilevante.

Nel deserto della Destra, insomma, manca, lo si chiami come si vuole, un partito  “votabile”.

 

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