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Assolto il lanciatore di duomi: Massimo Tartaglia dichiarato incapace di intendere e di volere

L’assoluzione dell’uomo che ferì Silvio Berlusconi in piazza del Duomo, a Milano, chiude quello che potrebbe essere liquidato, dal Presidente del Consiglio, come un brutto incidente. Resta il ricordo, per tutti i cittadini, del comportamento che ebbero, in quell’occasione, politici e giornali vicini al governo.

Assolto il lanciatore di duomi: Massimo Tartaglia dichiarato incapace di intendere e di volere

E’ durato pochi minuti il processo tenutosi a Milano, con rito abbreviato, che vedeva imputato Massimo Tartaglia, l’uomo che il 13 Dicembre scorso ferì al volto il Presidente del Consiglio lanciandoli contro una pesante statuetta che riproduceva il duomo del capoluogo lombardo.

 

Il signor Tartaglia, che ha alle spalle tutta una storia di disturbi psichici, è stato dichiarato non perseguibile perché incapace di intendere e di volere al momento del fatto; un anno di libertà vigilata, nella comunità di recupero in cui già era agli arresti domiciliari, sarà per lui l’unica conseguenza di quell’episodio.

Il Presidente del Consiglio, che sarebbe potuto restare ucciso data la violenza del colpo subito, fortunatamente se la cavò con la perdita di un dente o poco più.

Tanti invece persero la testa, a cominciare dal Ministro degli Interni, e molti di più ancora, tra i giornalisti, persero ogni barlume di dignità professionale.

Quello che era, con tutta evidenza, il gesto di un pazzo – come conferma la sentenza milanese – scatenò una serie di reazioni fuori d’ogni misura che rivelano, specie se riviste ora, a distanza di mesi, quanto fragile o inesistente sia la comprensione dei principi fondamentali della democrazia di tanti esponenti – uomini di partito, giornalisti e semplice militanti - dell’area politica che sostiene il governo.

Il Ministro Maroni, dopo aver presentato in Parlamento una relazione sull’accaduto in cui si dichiarava che il gesto fosse premeditato, come dimostrava che il fatto che addosso all’assalitore fossero stati trovati “altri oggetti contundenti, astrattamente idonei a ledere persone”, tra cui “un crocefisso in materiale resinoso” - in plastica, per chi non fosse ministro - fu lestissimo ad individuare i reali colpevoli dell’attentato: i tanti blog che, a volte con parole molto dure, criticano l’operato del Presidente del Consiglio.

Immediata fu anche la proposta di una soluzione: "Dobbiamo fare qualcosa per evitare che sui siti internet ci siano veri e propri inni alla violenza".

Il Presidente del Senato, Renato Maria Giuseppe Schifani, forte delle propria profonda conoscenza della rete, tradusse i sentimenti della maggioranza con un lapidario “Facebook è pericoloso”, per poi minacciare la presentazione di un DdL che, seguendo la strada già intrapresa da Ahmadinejad, Hu Jintao e Al Bahir, avrebbe messo l’Italia sullo stesso piano dell’Iran, della Cina e del Sudan, paesi dove il social network è proibito.

Sarebbe bastato ai nostri gentiluomini accendere un computer e farsi per davvero un giro in rete per scoprire come in qualunque paese democratico abbondino blog e forum specializzati nel lanciare insulti al proprio governo; come negli Stati Uniti vi siano decine di siti dediti a diffondere le più infamanti accuse contro presidenti presenti e passati – da Bush mandante degli attentati dello 11 settembre a Obama talpa dei talebani – senza che nessuno sogni, neppure lontanamente, di oscurarli.

C’è chi prende la libertà d’espressione – e la democrazia – sul serio e chi, di cosa si tratti, in fondo non l’ha proprio mai capito.

Tra questi ultimi, oltre all’immancabile Cicchitto che attribuiva la responsabilità dell’accaduto ad “un network composto dal gruppo editoriale Repubblica-L’Espresso” e poi a quel "terrorista mediatico di nome Travaglio ed alcuni pm", si sono iscritti di diritto tutti i giornalisti che, in quei giorni, si scatenarono contro quella parte dell’opposizione rea, in buona sostanza, di… opporsi.

Iniziò le danze Appelius Minzolini in uno dei suoi più ridicoli editoriali.

Il cranio più luccicante, se non la mente più lucida, del nostro giornalismo non aveva dubbi: la colpa dell’accaduto era da ricercare nella “parodia della guerra civile” messa in scena “anche in parlamento” da “cattivi maestri… che trasformano gli avversari in nemici”.

L’opposizione, sosteneva il nostro, se non voleva essere responsabile degli eccessi delle menti più deboli, doveva moderare i toni; opporsi, sì, ma con le buone maniere.

Nel mirino di Ricino Feltri, dell’Illibero Belpietro e di tutti gli altri cavalli e ronzini delle scuderie governative finirono, nei giorni successivi, un po’ tutti, ma in particolare, Antonio di Pietro ed il giornalista Travaglio colpevoli, il primo come il secondo, seppure dimostrando diversa padronanza dei congiuntivi, di fomentare l’odio nei confronti del Presidente del Consiglio.

Come? Nel modo più brutale, è ovvio: ricordando le sentenze emesse dai tribunali della Repubblica dove, notoriamente, secondo i maitres à oublier della pseudo-destra nostrana, si annidano i peggiori eversori.

Notevoli furono anche le attenzioni dedicate a Rosy Bindi, che fu dipinta come una pericolosa estremista; una specie di pasdaran in gonnella. La sua colpa? Aver detto che, se davvero c’era dell’odio nella politica italiana, i primi responsabili erano proprio Silvio Berlusconi, che da anni andava sproloquiando sulla minaccia costituita dagli onnipresenti “comunisti”, e le animucce candide di alcuni suoi ministri con, alla testa del gruppo, quel simpatico mattacchione di Umberto Kalashnikov Bossi.

I professionisti delle disinformazione fecero perfettamente il proprio mestiere: il volto insanguinato del Presidente del Consiglio - commosse anche me vedere quel vecchietto ridotto così male - fu trasformato in un’icona; il lancio della fatidica statuetta divenne lo strumento per zittire, in un momento particolarmente delicato del dibattito politico, le voci dell’opposizione e per ricompattare- si sprecarono in quell’occasione le dichiarazioni di fedeltà al Capo ferito – una maggioranza di cui già si avvertivano gli scricchiolii.

La campagna stampa contro l’opposizione che seguì il ferimento del Presidente del Consiglio è stato uno degli episodi più vergognosi nella pur non brillante storia del giornalismo italiano; uno scandalo che sarebbe rimasto tale anche se a commettere l’attentato fosse stato un killer professionista armato con una pistola: prendendo spunto dal gesto di un singolo – fosse stato un gruppetto di criminali nulla cambierebbe a questo ragionamento – si è criminalizzata senza esitazione, con buona pace del tanto sbandierato garantismo, un intera parte della società italiana.

Il vero, e purtroppo duraturo, lascito di quel pomeriggio di dicembre è stata la conferma che il nostro sistema informativo era, ed è, quasi completamente marcio; che il giornalismo, in particolare quello televisivo, è ormai un semplice strumento di propaganda politica nelle mani del governo.

Da allora, le poche voci libere rimaste, sanno di avere i giorni contati; che in un modo o nell’altro, prima o poi, saranno costrette a cambiare toni o a tacere per sempre.

Un’altra eredità, a dire il vero, la dobbiamo a quei giorni; la definizione del PdL data, mentre ancora giaceva nel suo letto d’ospedale, da Silvio Berlusconi: “Il partito dell’amore”.

Che l’opposizione fosse, invece, il partito dell’odio non ebbe necessità di precisarlo; ci avevano già pensato, e ancor più abbondantemente lo avrebbero fatto, i suoi manutengoli.

P.S. Ti stai chiedendo, cortese lettore, dopo avere letto la mia chiusura, che cosa succeda al frutto nazionale in una repubblica delle banane governata dal partito dell’amore?

Leggi il testo del DdL sulle intercettazioni e troverai la risposta; il mio buongusto non mi permette di dartela.

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