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Arriva la neve. Ricordando Mario Rigoni Stern

Quando è morto Mario Rigoni Stern mi si sono inumiditi gli occhi.

Mi è difficile spiegare a parole perché mi sia accaduto. Il senso di fratellanza che dà la penna nera (avrà voluto, come vorrei io, “Signore delle Cime” per la sua ultima messa?) avrà avuto la sua responsabilità, come il senso di gratitudine verso chi, con le sue opere, ha fatto rivivere per sempre i miei parenti ed i miei compaesani che dalla Russia, da tutta quella neve, non sono mai tornati.

Anche i ricordi devono aver congiurato: quello della foto di Severino, beccato da un’incursione aerea quando la divisione era già fuori dalla sacca, con la sua divisa da ufficiale e una croce di ferro tedesca al collo “diceva che non valeva niente; che neanche sapeva perché gliel’avessero data" che mia nonna teneva sul cassettone a fianco di una Madonna di Lourdes; quello delle voci pesanti degli amici di mio nonno, i più giovani, che invece erano tornati e qualcosa raccontavano sempre “al Don l’è grand; grand cume cent volti l’Ada quandu l’è granda” e altro, invece, non raccontavano quasi mai “e i cridava mama, i rusi. Mama cume nualtri”.

Anche il senso di vuoto è arrivato subito. Difficile descrivere anche questo: non quello assoluto, che riduce il mondo a tohu wa-bohu, che si prova quando muore chi si ama; piuttosto quello, meno atroce ma non meno reale, che lascia la perdita di un pezzo della propria storia. Ho sentito qualcosa di simile quando il terremoto ha sgretolato gli affreschi di Giotto e di Cimabue ad Assisi e, più ancora, quando ho scoperto, pochi mesi fa, che il grande, secolare, castagno (l’arbul per antonomasia) che ancora svetta nell’immagine del fondovalle che porto nella memoria, non c’era più, aperto da un fulmine già qualche anno fa, mentre io ero chissà dove a fare chissà cosa.

Forse è proprio il senso di colpa, la spiegazione di quell’accenno (solo un accenno; io non piango mai) di lacrime. Per il solito vigliacco pudore, rinviando il viaggio ad Asiago da un’occasione all’altra, Rigoni Stern non lo sono mai andato a trovare. Non so se la mia visita gli avrebbe fatto piacere, ma mi sarebbe piaciuto portargli un salame dei nostri e del pane di segale e immaginavo di mangiarli con lui, scambiando qualche parola.

Non che volessi avere grandi rivelazioni o chissà quali perle di saggezza, da parte sua; per quelle potevano bastare i suoi libri. Sarebbe stato un modo di fare comunione, tramite lui, anche con tutti quei ragazzi di un tempo che ormai, tranne pochissimi, se n’erano andati; di gustare assieme, con quei sapori, il poco che resta di quel mondo alpino in cui lui ha vissuto e di cui, giovanissimo, ho potuto solo cogliere gli ultimi bagliori.

Più che altro avrei voluto ringraziarlo. Per il suo rispetto per la lingua (che bello il suo italiano; anche quello degli ultimi suoi lavori) conservato anche negli anni in cui infuriavano i più orribili e illeggibili sperimentalismi. Per aver saputo esprimere, come non avrei saputo fare, per mancanza di un adeguato lessico e non solo, un sentimento per la montagna e il bosco così simile al mio.

Soprattutto per scritto, magari neppure volendolo, una delle poche opere della nostra moderna letteratura che meriti d’essere definita epica, perché questo è, prima d’ogni altra cosa, adesso che il tempo ha allontanato da noi quegli eventi, “Il sergente della neve”.

Epica altissima senza un grammo di retorica; qualcosa di cui, come italiani, per il solo fatto di aver celebrato quel libro e averne riconosciuto il valore, dovremmo essere orgogliosi.

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