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Annotazioni sull’informazione. Quanti uomini davanti alla penna

Annotazioni sull'informazione. Quanti uomini davanti alla penna

L’Italia è un’anomalia non solo politica e sociale. L’anomalia va cercata anche, e soprattutto, nel sistema informativo (che condiziona, appunto, la politica e la società). Nella semplificazione corrente da un lato c’è il giornalismo asservito e impiegatizio, da un lato le “star” che di volta in volta vengono portate come esempio eroico da pezzi di pubblico che trasformano uomini in simbolo, parole in testi sacri, il lavoro quotidiano in marketing editoriale (e a volte anche politico).

Distorsione di funzione. Un cronista, che sia un professionista o un pubblicista o un blogger o un qualsiasi cittadino (attore, comico, scrittore, impiegato di concetto o operaio in cassa integrazione) dovrebbe essere semplicemente una persona che usa i mezzi a sua disposizione per riportare pubblicamente una notizia. Dovrebbe essere una persona che mette al servizio della notizia (e del diritto all’informazione) la propria penna, ponendosi “dietro” la propria penna e descrivendo un pezzo di realtà. Mostrarla. Spogliare l’omertà attraverso la propria testimonianza. Fare cronaca. Questo avviene in tutto il mondo, questo avviene sempre più raramente da noi.

Credo che la motivazione vada ricercata nel senso di colpa collettivo che attraversa la nostra società. Il senso di colpa di un popolo intero che ha deciso di non leggere i giornali, di non guardare gli spazi informativi televisivi, di non avere memoria. Un vuoto che nessun social network o blog e sito può riempire. Questo senso di colpa collettivo produce due reazioni. Prima quella di aumentare ancora di più il divario fra pubblico e informazione, fra notizia e realtà percepita, fra intrattenimento e approfondimento. Seconda quella di esaltare alcune figure simbolo (in modo del tutto cieco e irragionevole) trasformando la persona che fa cronaca in cronaca (a questo punto di costume) egli stesso. Di esempi ne potremmo fare a centinaia. Centinaia, sì. Perché una delle contraddizioni dei “simboli” è quella di durare poco, di crescere velocemente e di cadere nella polvere (e nel silenzio) ancora più velocemente.

Essere “cronaca” per uno che dovrebbe fare “cronaca” è devastante. Smette di essere un uomo “dietro” la penna e si pone “davanti” alla penna. È lui la notizia, non quello che descrive. Una cosa del genere ti monta la testa, ti fa credere di avere un potere (e per brevissimo tempo questo potere lo si ha) enorme e di poter condizionare l’opinione di chi ti legge. Tutto si riduce al “circo”, al “marketing”, alla simbologia. E la realtà sparisce, viene oscurata. Non che si smetta di descriverla, nessuno si accorge più che viene descritta. Non importa cosa si scrive, cosa si descrive, che notizia viene portata al pubblico. L’unica cosa che importi davvero per il pubblico osannante (e pronto al linciaggio con altrettanta prontezza) è “chi” scrive. Tutto il resto (i contenuti, la cronaca, la notizia) è accessorio.

Quindi da un lato c’è la folla in cerca di eroi, dall’altro l’eroe “assunto” a tale ruolo che ovviamente (siamo tutti essere umani) si fa due conti e pensa al successo, alla visibilità, eccetera. È un meccanismo, tremendo, che, consapevolmente o no, ti stritola. Ma, questa la cosa più grave, consolida il blocco tutto italiano del sistema informativo e quella che viene descritta (e spesso a ragione) come “la casta”. Alla quale in gran parte contribuiscono tutti sia direttamente (i più) che sotto tracci (il resto). Parliamoci chiaro: quando ci sono migliaia di giornalisti disoccupati e un mercato del lavoro in contrazione vi pare logico che ci sia qualcuno che si metta a fare una battaglia del genere aprendo la professione a nuovi (e vecchi) concorrenti? Tutti hanno la pagnotta da portare a casa. Anche le icone.

Il gruppo “Ossigeno” della Fnsi denuncia che ci siano circa 200 cronisti in Italia in pericolo perché minacciati dalla mafia o da poteri “occulti” e/o deviati. Sanno benissimo, e lo sanno tutti i cosiddetti addetti ai lavori, che questa stima già impressionante è di gran lunga sottostimata. Molti non emergono, non denunciano, non raccontano pubblicamente la loro posizione. In parte perché consapevoli che “emergendo” smetterebbero di fare gran parte del loro lavoro di cronisti diventando oggetto di cronaca loro stesso, o in parte, e questo è ancora più preoccupante, perché talmente tanto imprigionati da pressioni e intimidazioni e minacce da temere di essere stritolati dal meccanismo in cui si sono infilati descrivendo la realtà. Sarebbe interessante chiedere alla “folla” se conosce i nomi dei 200 segnalati dalla Fnsi, se sanno per quali testate o blog o media scrivono o lavorano. Il risultato sarebbe inquietante. I nomi che uscirebbero sarebbero non più di una decina e alcuni di essi non sarebbero inseriti in quell’elenco.

Quello di fare informazione è un atto complesso che dovrebbe richiedere molte componenti. Un mix di curiosità, capacità di racconto, narcisismo, coraggio, consapevolezza sociale e perfino politica. Impegno e lavoro, coraggio e giusto obiettivo di veder riconosciuto (anche economicamente) il proprio lavoro. In Italia si aggiungono componenti post ideologiche molto interessanti: militanza (non solo politica), interesse (non solo economico), sudditanza (sia politica che economica), marketing (trasversale da destra e sinistra), capacità di manipolazione (da destra a sinistra), spettacolarizzazione del proprio lavoro (da destra a sinistra). E come reagisce il pubblico? Da un lato disinteressandosene altamente (“sono tutti dei bugiardi prezzolati”) dall’altro costruendo vere e proprie “chiese” attorno all’eroe di turno.

L’informazione e la cronaca in uno scenario del genere diventano solo armi per raggiungere obiettivi. E ogni forzatura diventa lecita.
Il bello è che ci cascano tutti. Facciamo l’esempio che ci fornisce la Fnsi e l’Usigrai (e menomale che si sono mossi, bisogna darne atto) nella vicenda dei talk show della Rai cancellati: pensiamo davvero che queste due organizzazioni siano esenti da responsabilità enormi nella distorsione del sistema informativo italiano? Anche in questo caso la risposta è stata “spettacolo”, “evento”, l’ostensione degli eroi censurati dal potere e osannati dal proprio popolo (una minoranza cospicua ma pur sempre minoranza).

E cosa dire dell’ordine? Un ordine che sopravvive nonostante contraddica ogni giorno (solo esistendo) l’articolo 21 della Costituzione? Leggiamolo quell’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Di quella voce («La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure») ordine e Fnsi si ricordano sempre e soltanto la parte “censure” (e purtroppo solo in certi casi) e non la parte “non può essere soggetta ad autorizzazioni”. E questo è gravissimo. Il legislatore sapeva perfettamente che la parte autorizzativa avrebbe condizionato la stampa (attenzione, ripeto, si parla di stampa e non di espressione, quindi di giornali e giornalisti). L’articolo 21 della costituzione è forse l’articolo più violato delle nostre regole, del nostro contratto sociale fondativo. Perché se venisse applicato davvero non ci sarebbe un ordine dei giornalisti (ma eventualmente delle associazioni di giornalisti privati senza controllo dello Stato), l’autorizzazione del Tribunale, eccetera.

Ma ritorniamo ai simboli, a quelle donne e uomini (le donne, a dire il vero, sono pochissime quelle elevate al grado di “eroine” mentre sono in stragrande maggioranza loro le persone che meglio fanno il proprio lavoro quotidiano di informare il pubblico) trasformati da cronisti a icone. Il marketing (anche quello “alternativo” ha le sue regole) li schiaccia all’interno di un meccanismo che rende il loro stesso lavoro diventa accessorio. È come per i calciatori: eroi fino a quando servono, da archiviare poi appena ne arriva alla ribalta uno nuovo. Tutto il resto è per quei pochi che ancora cercano di informarsi, di avere notizie. È un meccanismo perverso che favorisce solo chi vuole (riuscendoci) controllare e manipolare l’informazione (o la sua assenza). È un meccanismo con una folla di complici.

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