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Altro miope presidente, solita miope Confindustria

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha detto che per uscire dalla crisi, di cui non vede una possibile fine prima del 2015, dovremmo lavorare di più.

Tra il lavoro italiano e quello tedesco, questo il nocciolo del suo ragionamento, c’è una notevole differenza di produttività e questa può essere recuperata solo aumentando le ore di lavoro dei dipendenti delle nostre aziende.

“Il lupo perde il pelo ma non il vizio”, commenterà qualcuno, ricordando che la competitività italiana, da vent’anni a questa parte, si è basata sempre più su una diminuzione del costo del lavoro.

“Ci vuol proprio poco a capir niente”, viene da dire a me, oltre a ricordare un altro proverbio: “Tanto va la gatta al lardo …”.

E lo zampino, riducendo gli stipendi reali dei propri dipendenti, le imprese italiane ce l’hanno lasciato già. La nostra crisi è prima di tutto una crisi del nostro mercato interno; dipende dal semplicissimo fatto che i lavoratori italiani (specie i più giovani assunti con contratti diversi da quello tradizionale) non hanno in tasca i soldi per comprare quel che essi stessi contribuiscono a produrre. 

Gli imprenditori italiani, in buona sostanza si sono dimenticati la lezione di Henry Ford che, aumentandone i salari e riducendone l’orario di lavoro (senza tempo libero non si va a spasso in automobile), fece dei propri dipendenti i primi clienti della sua impresa. Con il loro operato hanno, anzi, contribuito alla ormai ben avviata sudamericanizzazione della nostra economia. Il fatto che esportiamo (e l’export anche ora funziona) automobili sportive, borsette e macchine utensili anziché banane, cambia poco: gli operai “campesinos” della penisola, per bene che vadano le loro aziende, sono costretti ormai a lottare per la sopravvivenza e tutto possono fare tranne contribuire con i loro consumi, sempre più compressi, al rilancio della nostra economia.

Non hanno soldi in tasca, i lavoratori italiani, e non hanno tempo libero da passare in bar o ristoranti, andando al cinema o facendo una gita fuori porta. Infatti, anche se forse il presidente Squinzi lo ignora, ognuno di loro passa già, in media, 1774 ore l’anno sul posto di lavoro; 363 più di un tedesco e, chi l’avrebbe mai detto, una cinquantina in più di un giapponese. Pochi numeri per ribadire che, specie considerando l’enorme serbatoio di disoccupati e cassintegrati, di tutto abbiam bisogno, per far ripartire la nostra economia, tranne far lavorar di più chi lavora già troppo.

Non solo. Storicamente la disponibilità di un’ampia base di forza lavoro sottopagata è stata importante solo per l’avvio dell’industrializzazione. (Il libro da leggere, non solo per rendere omaggio al suo autore recentemente scomparso, è “La rivoluzione industriale e l’impero” di Eric J. Hobsbawm). I successivi sviluppi tecnologici, invece, sono tutti avvenuti sotto la spinta della necessità di risparmiare sui costi di una manodopera relativamente scarsa e ben pagata. L’insufficiente produttività dei nostri lavoratori non dipende dalla loro indole e certo non ha nulla a che vedere con il tempo che passano negli uffici e nelle fabbriche; dipende dal tipo di mansioni che svolgono e dagli strumenti con cui le svolgono.

Il basso costo del lavoro, consentendo nel nostro paese la sopravvivenza di attività scomparse nel resto del mondo sviluppato e di aziende, spesso microscopiche, che continuano ad usare macchinari e tecnologie vecchie di decenni, è, anzi, con buona pace di Squinzi, la causa prima della nostra scarsa produttività; la ragione per cui un lavoratore italiano genera in un anno beni e servizi per un valore di soli 80.894 dollari: il trenta per cento in meno di quanto vale quel che nello stesso periodo, passando sul lavoro trecento ore in meno, produce un norvegese.

Una tassazione elevatissima (per chi paga le tasse), una normativa fiscale tanto complicata da richiedere l’intervento del commercialista anche per attività minime, una pubblica amministrazione inefficiente e pervasiva, quando non apertamente corrotta, e un sistema creditizio rapace e stitico, oltre ad un costo spropositatamente alto dell’energia ed alla mancanza od obsolescenza delle infrastrutture, sono fattori che contribuiscono a rendere difficilissimo fare impresa nel nostro paese.

E’ su questi fronti che dovrebbe lottare Confindustria, anziché battere sui propri esausti dipendenti, se vuol far recuperare produttività al sistema Italia; un obiettivo che, assieme allo sviluppo tecnologico dentro le imprese, avrebbe dovuto perseguire con coerenza da decenni. Non lo ha fatto perché fino ad ieri ha preferito il quieto vivere garantito, a tanti dei suoi più importanti membri, dalla collusione, anzi dall’osmosi, con il peggio della nostra politica.

Una scelta miope fatta da un’imprenditoria che ha rinunciato al proprio ruolo di classe dirigente e che, se l’uscita di Squinzi è un segnale, classe dirigente, nel senso proprio del termine, non ha nessuna intenzione di tornare ad essere.

Commenti all'articolo

  • Di Cesarezac (---.---.---.136) 23 ottobre 2012 11:13
    Cesarezac

    Daniel Schuler,

    Giorgio Squinzi, lo troverà anche sul mio articolo di oggi su AGORAVOX, dice testualmente:" Siamo disponibili a rinunciare agli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale".
    Una normativa fiscale tanto complicata da richiedere l’intervento del commercialista, dice Lei.
    La stessa cosa che il sottoscritto ha pubblicato su AGORAVOX di qualche tempo addietro.
    Quindi pare che concordiamo sui punti fondamentali, ma insieme a noi concorda anche Giorgio Squinzi che a Lei non piace e concorda anche Susanna Camusso che spero non Le dispiaccia.
    Cordiali saluti. CESAREZAC

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