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Aggiornamenti progressivi del futuro

di Adolfo Fattori

La fantascienza è decisamente la forma narrativa che insieme al poliziesco nelle sue varie articolazioni ha meglio incarnato lo spirito del Novecento, del secolo terminale della Modernità occidentale, la se storica che ha portato al limite estremo le illusioni di progresso, benessere e felicità promesse dalla nascita dell’Occidente moderno, salvo poi collassare in una disillusione definitiva. Nessuna disputa, fra questi due settori dell’immaginazione narrativa: se il secondo esalta la necessità di ricondurre all’ordine della giustizia umana il caos delle pulsioni umane, la prima celebra i miti della scienza e della tecnologia. E, data per morta più di una volta, continua a farsi beffe dei cattivi profeti riproponendosi sempre più vitale che mai, basti pensare al successo dei nostri anni del cinema e delle tv-series dedicati al genere (cfr. V. Pellegrini, Black Mirror: anticipazioni sulla memoria del futuro, in Futuri n. 5, maggio 2015).

È un campo di studi sempre fertile, sia che si guardi alla grande produzione, per tradizione anglosassone, sia che si concentri lo sguardo su situazioni più locali, più “periferiche”, come può essere l’Italia. E così, a distanza di appena un anno dalla pubblicazione di Fantascienza italiana. Riviste, autori, dibattiti dagli anni Cinquanta agli anni Settanta (Mimesis, Milano, 2014, cfr.) la ricercatrice milanese Giulia Iannuzzi torna ad occuparsi della science fiction in Italia con, sempre per Mimesis, Distopie, viaggi spaziali, allucinazioni. Fantascienza italiana contemporanea (2015, pagg. 363, € 28,00), un’ulteriore scelta di tasselli per la realizzazione di una mappatura sempre più completa della storia della fantascienza – e della critica, per così dire, della stessa – in Italia.

Dopo aver quindi riassunto, per definire lo sfondo su cui lavora, le sue esplorazioni e descrizioni dei tempi pionieristici, e anche ingenui, in cui si è diventati consapevoli dell’esistenza e delle caratteristiche del genere nel nostro paese – a cui aveva dedicato il suo primo lavoro – la Iannuzzi passa a interrogare con la meticolosità e la passione che fanno parte di lei gli ultimi quarant’anni di fantascienza italiana, a partire da una fase che sicuramente possiamo considerare cruciale, gli anni Settanta del Novecento, per arrivare all’oggi, per poi concentrarsi sul lavoro di quattro autori italiani che la studiosa sceglie per rappresentare le epoche attraverso cui la science fiction italiana ha provato a darsi un’identità propria, originale, specifica, dedicando ad ognuno di loro un lungo, ricco, capitolo del suo libro: Lino Aldani, Gilda Musa, Vittorio Curtoni, Vittorio Catani, tutti, fra l’altro, impegnati chi più chi meno anche sul versante della critica e dell’editoria.

La dimensione in cui si muove la giovane ricercatrice è prima di tutto quella storiografica, ma riarticolata attorno alla necessità di analizzare le direzioni che la “consapevolezza”, se così possiamo dire, dello statuto del genere sperimentava nel nostro paese, in un dibattito che si svolgeva fra dimensione del mercato, lavoro degli operatori culturali coinvolti, istanze degli appassionati, mutamenti delle identità di tutti coloro che in una misura o in un’altra ruotavano intorno alla sfera della fantascienza.

Per l’Italia – e per la sua editoria – gli anni Settanta del XX secolo sono anni di svolta: l’onda lunga del mutamento sociale produce maggior benessere, bisogni di “cultura” nuovi e più convinti, in particolare concentrati sulla categoria dei “giovani”, che esprime nuove soggettività sociali, originali, mobili, variegate.

È un periodo di grazia per tutta la carta stampata: saggistica, letteratura “mainstream”, narrativa “di genere”. La science fiction forse, fra quest’ultima, è quella che circola di più: nascono o si allargano le case editrici specializzate, fioriscono le riviste, si rivitalizza un dibattito che c’era sempre stato, ma che si svolgeva sostanzialmente fra gli appassionati e gli esperti del settore, e qualche isolato docente universitario comincia a mostrare il suo interesse per la sfera della narrativa d’anticipazione.

È in questa atmosfera, quindi, che i “veterani” della “militanza” nella fantascienza italiana prendono vigore e intravedono la possibilità di uscire dall’ombra in cui il disinteresse della critica ufficiale e dell’accademia li avevano sempre ricacciati, agevolati forse anche dalla dimensione ingenua, troppo interna, in cui si muovevano gli animatori del piccolo fandom italiano…

Proprio “zoomando” su questo periodo, Giulia Iannuzzi coglie e valorizza alcuni momenti fondamentali della storia del “fenomeno fantascienza” in Italia: l’infittirsi di pubblicazioni sull’argomento, e prima di tutto la nascita, nel 1976, della rivista Robot, diretta da Vittorio Curtoni, uno degli autori che Iannuzzi approfondisce nel libro, ma anche alcuni eventi particolarmente significativi: il convegno “La fantascienza e la critica”, tenutosi all’Università di Palermo nell’ottobre del 1978, con la partecipazione anche di scrittori e critici internazionali del settore, ma anche studiosi di altra provenienza, come il filosofo francese Jean Baudrillard. Anzi, proprio lui lanciò in termini provocatori l’idea che la fantascienza fosse morta, ma solo perché si era realizzata – senza che questo significasse che il genere aveva smesso di riprodursi, anzi…

Ma è questa intera fase storica, che va dalla fine degli anni Settanta a tutti gli anni Ottanta che mostra l’interesse dei consumatori di cultura nei confronti di questa forma della narrazione. La Iannuzzi ricorda anche l’esplodere delle riviste a fumetti, all’estero come in Italia, tutte attente ai temi e agli incubi evocati dalla fantascienza, da Metal Hurlant in Francia e poi dal 1981 anche in Italia, fino a L’Eternauta, Corto Maltese, Frigidaire per citare le più significative, veicoli di diffusione della science fiction ma anche di innovazione e sperimentazione iconica e figurativa. Come per i film di quegli anni, a partire da Guerre stellari (1977) per arrivare almeno a Alien (1979) e a Blade Runner (1982).

Sono anni straordinari, dal punto di vista della diffusione di una sensibilità che trova le sue radici nella cultura di massa e in quella pop, e che si lega alle istanze di cambiamento, di rottura delle gerarchie culturali, di sdoganamento dell’avventura – almeno attraverso i mondi della narrativa – di legittimazione delle forme narrative altre rispetto a quelle consolidate e sacralizzate dall’accademia.

È, in pratica, l’onda lunga del “Sessantotto”, anche, a farsi sentire – i “giovani” di allora che diventano adulti, ormai percettori di redditi anche piccoli, che intervengono sulle curve dei consumi, riorganizzando gli spazi e i tempi del loisir secondo istanze nuove, in parte inedite. E l’ingresso nella post-modernità, naturalmente, quell’epoca, come scrive Fredric Jameson (Postmodernismo, Fazi, Roma, 2007), in cui “tutto diventa testo”, e quindi tutto è potenzialmente legittimato come consumo culturale.

Ed è qui che anche i nostri scrittori di fantascienza – i quattro cui si dedica Giulia Iannuzzi, più quelli che emergeranno – rivendicano e trovano spazi fino ad allora sostanzialmente negati loro dai colossi dell’editoria, giocando sugli intrecci che i vari media articolano nell’immaginario collettivo, fino, naturalmente, ai giorni nostri, con la rivoluzione prodotta dalla esplosione del Web, delle cyberculture, degli spazi digitali.

La science fition, insomma, rimane viva e vegeta, nello spazio indicato da due grandi: William Burroughs, “La fantascienza ha la cattiva abitudine di avverarsi”, e Philip K. Dick, “Fare profezie non è compito della fantascienza. Questa predice solo in apparenza”.

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