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Addio carta stampata

Il giornalismo, come l’abbiamo conosciuto, è morto. L’assunto di base delle discussioni che hanno animato la scena in questi ultimi giorni ruotano attorno a questa certezza. Una consapevolezza, più o meno accettata da tutti, che dovrebbe stimolare la ricerca e la sperimentazione più che alimentare piagnistei o nostalgie inutili.

A scatenare il dibattito le posizioni di due critici culturali americani, Clay Shirky e Steven Johnson, sorretti dai dati emersi dal sesto rapporto annuale sullo stato dell’informazione americana, The State of the News Media 2009.

La situazione di crisi in cui l’economia dell’informazione è sprofondata è l’anticamera del baratro. Attori e protagonisti del mondo dell’informazione, incapaci in passato di prevederne i mutamenti, sono destinati a subirne le conseguenze. Un’analisi troppo dura incurante dei benefici che il giornalismo ha apportato alla formazione delle democrazie occidentali, secondo alcuni. Non è proprio così. L’ipotesi, neanche così tanto lontana è questa, che i giornalisti scompaiano assieme ai giornali che non stanno più in piedi. Le professioni, come fa notare intelligentemente Luca De Biase, cambiano, si modificano, scompaiono. Di quante, oggi, possiamo farne a meno? Di quante professioni non abbiamo traccia o abbiamo evitato di celebrarne la scomparsa?

Secondo me, il giornalismo, come professione, non è la carta stampata, anche se da sempre i concetti sono stati accostati. Oggi questa equazione è diventata lo scoglio attorno a cui gli addetti ai lavori, almeno in Italia, si stringono, cercando di esorcizzare il pesce vorace, internet ed i suoi adepti, che ha dato origine al cambiamento. Come se potessero resistere tenacemente alla marea.

La fame d’informazione, di storie, però, resta immutata. E’ una necessità di cui la gente alimenta il quotidiano, al di la del supporto attraverso la quale la si fruisce. E’ su questo scarto che bisogna operare una distinzione tra il destino della carta stampata con quella di una professione, il giornalismo, che ha tutte le capacità d’adattamento per uscire incolume dal naufragio dei giornali.

Negli Stati Uniti qualcosa si sta muovendo. Almeno si è capito che il passaggio al digitale è imprescindibile. I tentativi ci sono e sono variegati, dall’home page “Extra” del New York Times alla collaborazione con i citizen journalist ai progetti iperlocali.

Ma forse tutto questo affannarsi non servirà. Magari, in un futuro non troppo lontano, potremo fare a meno di qualcuno che ci racconti delle “storie” ma, grazie all’innovazione tecnologica, vi parteciperemo personalmente.

Commenti all'articolo

  • Di virginia (---.---.---.96) 20 marzo 2009 15:05

    L’articolo mette in luce quello che già da tempo noi giornalisti della carta stampata passati al web (io personalmente ho incominciato a collaborare con giornali on-line nel 1997) avevamo intuito, ma non proprio confutato con certezze.
    Adesso lo tocchiamo con mano. E sono curiosa di vedere come sarà il nostro futuro. Una cosa su cui in parte dissento è questa: un giorno non racconteremo storie ma ne diverremo noi stessi protagonisti. Questo è vero solo in parte perché il vedere e raccontare sono imprescindibili, anche se non siamo noi stessi protagonisti: fanno parte della natura umana. Raccontare un avvenimento che ci tocca particolarmente e quindi stimola la nostra curiosità, è davvero un impulso troppo forte che non può essere represso. O no?

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