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15 ottobre, non solo indignazione: le ragioni degli occupanti

In questi giorni, la pigrizia del giornalismo italiano ha portato a nominare le manifestazioni che culmineranno in quella del 15 ottobre con l’etichetta di Indignati. Parlo di pigrizia perché, chiaramente, non c’è stato un tentativo di capire la protesta, ma solo quello di inserirla in una categoria già conosciuta, già analizzata, già stemperata dall’ansia sociale che può generare un movimento dalle linee ignote.

In questo senso, quindi, chiamarci indignati è utile per depotenziare il movimento rispetto alla sua portata rivoluzionaria, oltre che limitarlo ad un sentimento che ha una duplice caratteristica: l’indignazione è su qualcosa di specifico (es. sulle spese del viaggio a Madrid del Papa) non sul sistema nel suo complesso, in alternativa, l’indignazione generalizzata porta solo alla lamentela, non all’azione.

Quindi, qual è l’alternativa?

L’alternativa è la consapevolezza. Personalmente, vedo questo nuovo movimento poliedrico e non programmatico-chiuso, come quello più consapevole che ricordi. È come se fino ad oggi ci fossimo sì indignati per specifiche questioni, senza arrivare alla comprensione globale che, ogni legge, ogni provvedimento, ogni carica della polizia, non erano altro che sintomi di una stessa condizione generale. È come se fino ad oggi la massima di Debord, l’economia ha trasformato il mondo nel mondo dell’economia, non ci fosse mai stata illuminata.

Ad oggi, invece, su scala globale, siamo arrivati a questa consapevolezza generale che ci ha permesso di svegliarci sia dal sogno ottimistico, sia dall’indignazione chirurgica, per arrivare a saper sezionare il sistema senza perderne il complesso, saper arrivare alle ultime conseguenze di un gesto e di un contratto, a saper capire i processi di costruzione del sistema nel quale siamo inseriti. Capisco quindi che questo possa spaventare e quindi capisco che sia più comodo relegarci ad un sentimento meno minaccioso per il sistema stesso, ma non può starmi bene.

Allora, come dovrebbero chiamarci?

Io credo che tutto dovrebbe iniziare da una sola parola Occupy. Questo termine, infatti, è indicativo di quella consapevolezza di cui parlavo prima, rappresentata proprio dal fatto che, globalmente, siamo andati oltre rispetto alla protesta sotto il ministero, ma siamo arrivati al cuore che gli pompa il sangue, al cervello economico che ne governa le sinapsi decisionali: Wall Street, Piazza Affari, Banca d’Italia

Oltre a questo, riesce a sottolineare il valore globale della protesta, che vede impegnata tutta una generazionenon definita cronologicamente, ma dalle condizioni lavorative e di vita che vanno a colpirla – che ha scelto e sceglie giorno per giorno, senza linee dettate dall’alto, di partecipare.

E oltre a questo ancora, Occupy dà l’idea, appunto, dell’occupare, del prendere spazio, non solo fisico come può avvenire simbolicamente nel momento della marcia, ma soprattutto economico, di vita, decisionale. Occupare il proprio spazio esistenziale e sociale, quello spazio che – chiunque sia precario può capire – viene a mancare quando si sente una non rappresentanza, quando si sente di non esistere per chi governa e genera la realtà sociale.

Per questo, io dico, non chiamateci indignati, perché siamo molto di più, siamo occupanti: We Occupy Our Future!

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