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Nostalghia di Andrei Tarkovskij

Più che la nostalgia poté la noia. È questa che sembra consumare il protagonista Andrei, lui stesso lo dice avanti nel film, “noia di tutto”, una persona che non sa a cosa tendere, malgrado una presunta ricerca nel senese sul passato di un musicista russo del ‘700, morto suicida. Ci è mostrato in una fase della vita cosparsa di apatia, coperto immodificabilmente dallo stesso pastrano, né le bellezze della Toscana sembrano animarlo né quella statuaria ma inespressiva di Domiziana Giordano, Eugenia, che funge da traduttrice (“Non solo traduco bene ma miglioro anche quello che dice la gente che si serve di me”).

Il film è rappresentativo, celebrativo di luoghi dei quali il regista è certamente innamorato (lo girò in Italia quando cominciò a divenirgli complicato girare in Russia), un paese appare illuminato e come sospeso sulla valle, celestiale. Tarkovskij è certamente dotato di profonda osservazione, della bellezza in generale e di quei luoghi che venera in particolare, il Bagno Vignoni, la cattedrale scoperta di San Galgano, la Madonna del Parto di Piero della Francesca. Si sofferma lungamente sui dettagli, rendendoli sacri. Non si può ignorare un po’ di narcisismo da maestro, come chiunque, in tutte le arti espressive, ama leggere e rileggere quanto ripreso, dipinto o scritto, e se ne autocompiace: in fondo esprimersi serve a chi lo fa, questo film non sembra “donare” moltissimo allo spettatore. Daniele Di Ubaldo su MyMovies definisce perfettamente i film di Tarkovskij come “espressione di un disagio vissuto e descritto in maniera soggettiva… tensione rivolta a sciogliere interrogativi fondamentali sull’uomo e sull’esistenza… non tutte cose visibili con lo sguardo”. Nel film è detto analogamente che “I sentimenti non espressi non si dimenticano”.

Gli “interrogativi fondamentali” rimangono senza risposta e sono però gettati qua e là lungo le oltre due lente ore, quasi a voler dare un’impronta filosofica a un film che è soprattutto osservativo, perfino del cadere della pioggia sugli oggetti, trasformato in più di un’occasione in un concerto come di campanelline. A Eugenia che non riesce a inginocchiarsi in chiesa è detto (dal sagrestano) che deriva dal suo non avere fede; alla domanda di questa, “Perché sono più devote le donne?” le si risponde che la donna è più paziente, che essa serve per fare figli. Interrogativi sono posti dal “pazzo” Domenico che predica nel finale – prima di darsi fuoco - in una piazza di Roma a un pubblico rado che sembra non normale anch’esso, in una grande rappresentazione scenica, teatrale. Le questioni di Domenico parrebbero di accusa ai cosiddetti “sani, che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe… la libertà non ci serve se non avete il coraggio di guardarci in faccia… mescolare sani e malati… che significa la vostra salute?”.

Ma, infine, sebbene “impressive” (solenne, di grande effetto) e un po’ ossessivo, è un film sulla nostalgia, sulla noia e l’apatia o sulla follia? O è solamente osservativo?

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