È avvenuto tutto nella notte tra il 28 e il 29
maggio. A mezzanotte. Fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che
bussava alle finestre e alle porte. Mia sorella, mio cognato e io ci
precipitammo verso la porta d’ingresso. Eravamo spaventati. Quando aprii
la porta tentai di chiedere in inglese chi fossero. Mi diedero una
spinta e circa 30-35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati. Del gruppo faceva parte una donna di circa trent’anni che non mi perse mai di vista. Tra loro parlavano in italiano. Mentre ce ne stavamo nell’ingresso paralizzati dalla paura cominciarono a perquisire la casa. Capii dopo che cercavano mio marito Mukhtar Ablyazov.
In quel preciso momento ebbi la certezza che ci avrebbero ucciso. Il
capo del gruppo mi chiese chi ero. Non volevo fornire il vero nome mio e
di mia figlia. Risposi: “Sono russa”. “Puttana russa”, mi disse uno di loro. Un italiano con una grossa catena al collo e l’aspetto da mafioso cominciò a urlare indicando la pistola. Ci chiesero i documenti. Mostrai il passaporto della Repubblica Centrafricana.
Era un passaporto diplomatico. Mi mostrarono diverse foto tra cui
quella di mio marito. Mi chiesero se lo conoscevo. Risposi di no. Poi
nel computer che avevamo in casa trovarono la foto di mio marito e mia
figlia. Alla fine mi dissero di vestirmi e seguirli. Trascinarono fuori
me e mio cognato Bolat. Ci condussero in una stazione di polizia al centro di Roma. Ci costrinsero a firmare un documento in italiano. Poi ci portarono all’ufficio immigrazione.
Alle 6 del mattino ci portarono in un altro posto nella zona
sud-orientale di Roma. Dopo ore di attesa mi chiesero, in un inglese
approssimativo, chi ero, cosa facevo in Italia e perché avevo un
passaporto falso. Risposi: “Telefonate all’ambasciata della Repubblica
Centrafricana: vi confermeranno che il passaporto non è falso”. Alle 21 e 30 dopo oltre 15 ore i nervi mi cedettero. Ammisi che ero del Kazakistan e che ero la moglie del capo dell’opposizione. Mi trasferirono in un centro di detenzione a Ponte Galeria. Mi rinchiusero in una cella con altre tre donne. Avevo paura. Una compagna di cella mi aiutò a fare il letto. Non ricordo quando mi addormentai.
30 maggio 2013
Il risveglio a Ponte Galeria
Al
risveglio volevo chiamare mia sorella, ma non avevo il cellulare. Me lo
prestò una detenuta. Chiamai mia sorella ma nessuno rispose. Temevo che
avessero preso mia figlia. Intorno alle 10 mi
portarono in una stanza dove un italiano che parlava russo mi disse di
essere l’avvocato di quella prigione. Gli raccontai tutto quello che era
accaduto. Mi rispose che potevano trattenermi al massimo 48 ore.
Finalmente con il telefono di una detenuta riuscii a parlare con mia
sorella che disse che gli avvocati si stavano dando da fare. Ero confusa
dalla paura. Più tardi mi fecero parlare con una persona
dell’ambasciata del Kazakistan. Mi disse di chiamarsi Arman e di essere
il console. Mi disse che secondo le leggi del Kazakhstan non potevo avere la doppia cittadinanza. Capii che non mi avrebbe aiutato.
31 maggio 2013
Il rimpatrio ad Astana
La
mattina del 31 maggio mi condussero in una stanza dove trovai un uomo e
una donna. Da un porticina laterale entrarono tre miei avvocati. La
donna negò di essere in possesso del mio passaporto. I miei avvocati andarono su tutte le furie ribadendo che il passaporto mi era stato tolto durante l’operazione
che aveva portato al mio arresto. Dopo un’ora mi riportarono in cella.
Poco dopo una donna di nome Laura, che avevo già visto all’Ufficio immigrazione, mi chiese di chiamare mia sorella per dirle di affidare mia figlia ai suoi uomini. Mi rifiutai.
Era presente anche l’italiano che parlava russo. Laura mi disse che per
legge non potevo telefonare al mio avvocato. Mi costrinsero a parlare
con mia sorella, che mi disse che volevano portare via la bambina.
“Mai senza gli avvocati”, urlai. Mia sorella singhiozzava. Poi
all’improvviso mi dissero che dovevo essere trasferita altrove. Mi
fecero salire su un minibus verso Ciampino. All’aeroporto riabbracciai mia figlia. Quando capii che volevano rimpatriarmi in Kazakistan risposi furibonda: “Chiedo asilo politico
in Italia”. Alle 18 Laura entrò nella stanza, afferrò mia figlia, la
prese in braccio e la portò via. Le corsi dietro urlando. Salì su un
minibus e la seguii. Ripetei che volevo l’asilo politico. “È troppo
tardi. È tutto già deciso”, mi rispose Laura. Il minibus si fermò improvvisamente. Si avvicinarono due persone del Kazakhstan.
Mi dissero che dovevo lasciare la bambina a un ucraino che lavorava per
noi. Dissi che preferivo portare mia figlia con me. Ci fecero salire su
un aereo senza documenti né passaporto. Era un aereo privato e molto lussuoso. Dopo sei ore di volo atterrammo ad Astana.
di Alma Shalabayeva
traduzione di Carlo Antonio Biscotto
da Il Fatto Quotidiano del 14.07.2013