Vorrei segnalare l’interessante contributo apparso ieri sul blog www.dirittoedemocrazia.wordp...
Il "nuovo" articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
I licenziamenti individuali sono regolati essenzialmente dalla Legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà
sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), il cosiddetto Statuto dei lavoratori. In estrema
sintesi discorsiva, pur nella complessità della materia ma senza
eccessivi tecnicismi, è forse utile un raffronto tra la disciplina oggi
in vigore e le proposte di modifica elaborate dall’esecutivo guidato dal
professor Monti.
La disciplina vigente stabilisce:
1- il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa o per giustificato motivo (art. 1 L. 604/1966);
2- il licenziamento deve essere comunicato per iscritto e, anche su successiva richiesta del lavoratore, motivato, altrimenti è inefficace (art. 2 L. 604/1966);
3- il licenziamento discriminatorio (ragioni di credo politico o fede religiosa, appartenenza a un sindacato o partecipazione ad attività sindacale) è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata (art. 4 L. 604/1966);
4- l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo spetta al datore di lavoro (art. 5 L. 604/1966);
5- il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento senza preavviso scritto o non motivato, o annulla quello intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità, ordina al datore di lavoro, che occupi alla sue dipendenze più di quindici dipendenti, di reintegrare il
lavoratore nel posto di lavoro; al lavoratore è data facoltà di
chiedere, in sostituzione della reintegrazione, una indennità pari a 15
mensilità della retribuzione, fermo restando il diritto al risarcimento
del danno in misura non inferiore a 5 mensilità (art. 18 Statuto
lavoratori).
Il disegno di legge recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, presentato dal Governo al Senato della Repubblica giovedì 5 aprile 2012, prevede:
1- all’art.
13, comma 1 (che sostituisce il comma 2 dell’art. 2 della L. 604/1966),
che la comunicazione del licenziamento, anche senza richiesta del
lavoratore, deve sempre contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato;
2- all’art. 14, comma 1, lettera b) (che sostituisce i commi da 1 a 6 dello Statuto, i quali diventano ora commi da 1 a 10):
a) il giudice, con la sentenza con cui dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio o riconducibile comunque ad altri casi di nullità o determinato da motivo illecito, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore, a prescindere dalla motivazione adottata e dal numero dei dipendenti occupati (comma 1);
b)
accertata la nullità, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al
risarcimento del danno in misura non inferiore a 5 mensilità (comma 2);
c) il
lavoratore può chiedere, in sostituzione della reintegrazione, una
indennità pari a 15 mensilità, sempre fermo restando il diritto al
risarcimento del danno (comma 3);
d) il giudice, se accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa (cosiddetto licenziamento disciplinare), per insussistenza dei fatti contestati o perché il fatto rientra tra le condotte punibili con misure comunque conservative del posto di lavoro, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e al pagamento di una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità (comma 4);
e) il giudice, nelle altre ipotesi in
cui accerta la non ricorrenza di giustificato motivo soggettivo o di
giusta causa, dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il
datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24
mensilità (comma 5);
f) nell’ipotesi di licenziamento inefficace per difetto di motivazione, o per altre ragioni, si applica il regime di cui al precedente comma 5, ma con attribuzione di una indennità determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità, a meno che il giudice (testuale, nel disegno di legge) ” sulla
base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di
giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di
quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto,
quinto o sesto ” (comma 6);
g) il
giudice applica la disciplina di cui al comma 4 (reintegrazione e
indennità) anche nelle ipotesi di difetto di giustificazione del
licenziamento per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o
psichica del lavoratore e di licenziamento intimato in violazione delle
regole conservative del posto di lavoro, in caso di infortunio,
malattia, gravidanza e puerperio. Lo stesso giudice può applicare la medesima disciplina se accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cosiddetto licenziamento per motivo economico); nelle altre ipotesi, invece, può solo dichiarare risolto il rapporto e prevedere una indennità risarcitoria. ” Qualora,
nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal
lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni
discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele
previste dal presente articolo. ” (testuale nel disegno di legge, comma 7);
h) le
disposizioni dei commi da 4 a 7 si applicano soltanto nei confronti dei
datori di lavoro che occupano più di quindici dipendenti (comma 8).
A questo punto si impongono alcune osservazioni, siano pur di carattere generale.
Sul piano
della tecnica legislativa, è innegabile un certo decadimento del
prodotto: la tortuosità declamatoria del testo di modifica spicca con
evidenza in confronto alla semplice linearità della normativa vigente.
Vi è anche un piccolo errore veniale, che verosimilmente sarà rilevato e
corretto in sede di esame parlamentare: il comma 6 dell’art. 14 prevede
che il giudice, in alternativa alle tutele ivi previste, possa
applicare quelle indicate ai commi 4, 5 e 6 (!!), ossia previste dallo stesso comma 6.
Guardando
alla sostanza delle cose, il disegno di legge implicherebbe un
complessivo, e notevole, affievolimento delle tutele apprestate a favore
del lavoratore, pur considerando l’ampliamento della teorica
possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro (anche nelle aziende
con meno di quindici dipendenti, nel caso di licenziamento
discriminatorio, o comunque nullo o determinato da motivo illecito). Il
punto più critico, difatti, è costituito proprio dal comma 6 del nuovo
art. 18 dello Statuto, previsto dal Disegno di legge. E’ facile
prevedere che al datore di lavoro (il quale intenda privarsi della
collaborazione di un dipendente comunque “scomodo” e che non sia così
ingenuo da lasciar trasparire motivazioni discriminatorie,
surrettiziamente disciplinari o economiche, ovvero addirittura illecite)
convenga sempre intimare un licenziamento semplicemente immotivato: in
tal caso il giudice, dichiarato inefficace il licenziamento, potrà
soltanto dichiarare risolto il rapporto e condannare il datore di lavoro
alla corresponsione dell’indennità risarcitoria; a meno che, sulla base della domanda formulata dal lavoratore (e, pertanto, con onere della prova interamente a suo carico),
non ravvisi anche un difetto di giustificazione (stesso comma 6) o la
ricorrenza di ragioni discriminatorie o disciplinari (comma 7), nel qual
caso potrà ordinare, per contro, la reintegrazione. E’ chiaro che siamo
in presenza di una specifica, netta e gravosa, inversione dell’onere
probatorio, interamente in capo al lavoratore e non più al datore di
lavoro. E che non sia necessario essere degli esperti giuslavoristi per
comprendere come esso sia difficilmente assolvibile (se non
nell’ipotesi, come affermano alcuni con una battuta, di essere donna,
meridionale, di colore, di religione diversa dalla cattolica, magari
incinta, ma non coniugata, e pure iscritta alla FIOM !). Se ce ne fosse
bisogno, la conferma della circostanza è testualmente contenuta nel
documento che accompagna il disegno di legge governativo; pagina 11: ” Al
fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a
licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni,
di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del
lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da
ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice
applica la relativa tutela “. Per di più, con l’aggravante che,
almeno formalmente, resterebbe in vigore l’attuale disposto dell’art. 5
della L. 604/1966 (” L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro),
apertamente in contrasto con la modifica proposta. (Un breve accenno,
solo per inciso. Il contrasto, in termini tecnici “antinomia”, potrebbe
essere superabile applicando le regole della successione delle leggi nel
tempo: la norma successiva, pur non abrogando esplicitamente la
precedente, prevale comunque su di essa perché incompatibile. In ogni
caso determinerebbe, quanto meno, un periodo iniziale di possibili
diverse interpretazioni giurisprudenziali, con nocumento alla certezza
del diritto e alla giusta durata del processo).
Si
comprende bene, ora, anche dopo i correttivi apportati dal governo per
evitare i possibili abusi, la contrarietà al disegno di legge di (almeno
una) parte del sindacato; si capisce meno, invece, la soddisfazione
manifestata da alcuni esponenti politici, anche della sinistra
parlamentare, i quali ritengono di poter rappresentare i legittimi
interessi dei lavoratori.
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