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Commento di

su Presadiretta: la recessione. Come gli imprenditori usano la cassa integrazione


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23 febbraio 2012 15:36

Bisogna da un lato chiarirCI bene cosa significa la "responsabilità sociale delle imprese", perchè se è solo una massa di parole scritta in linguaggio markettese in una pubblicazione che le ditte emettono una volta all’anno (quando lo fanno) allora non ci siamo proprio.

Quando avremo fatto questo, possibilmente in tempi non biblici (ad esempio stimolando i nostri cari parlamentari ad applicarsi al problema), farne una legge che renda la cosa "senza sè e senza ma": l’Alcoa chiude "per motivi suoi" (analisi sue la portano ad investire altrove), d’accordo, perfettamente lecito... "purchè si faccia carico del personale", il SUO personale: non è che, perchè l’azienda è americana e noi siamo italiani, i lavoratori italiani dell’Alcoa non sono suoi dipendenti. E’ una multinazionale? ed allora il discorso deve valere "per tutto il gruppo" e non solo "per una delle aziende" (che sono invece facili da chiudere).

Un’azienda delocalizza "perchè all’estero è più conveniente aprire sedi"? (traduz.: i dipendenti filippini o cinesi, per dire, costano 1/100 di quelli italiani), chiariamo bene che gli attuali dipendenti sono comunque responsabilità dell’azienda, responsabilità che si estingue solo nel momento in cui l’azienda chiude (v. il discorso dei gruppi e delle multinazionali).

In seconda battuta, se vogliamo globalizzare il mercato del lavoro, globalizziamo anche i diritti: cerchiamo di evitare che altri Stati, che sfruttano il proprio proletariato permettendo stipendi da fame e trattamenti al limite dello schiavismo (ad es. Filippine, ma anche molti altri), entrino in "concorrenza sleale" nei nostri confronti: per le merci ci sono le barriere doganali, creiamo qualcosa di simile anche per gli impieghi, una sorta di "compensazione" sulle merci prodotte dalle ditte sfruttatrici, una "lista degli sfruttatori" dei quali proibire la circolazione delle merci. Lo stiamo facendo sul fronte ecologico, possibile che non si possa fare su quello lavorativo?

Queste aziende, sfruttando la gente, producono a costi inferiori e poi vengono a vendere qui, dove ci sono (o c’erano) i soldi: ci sarà sicuramente un modo di tutelare le aziende che producono in un mercato del lavoro "meno da sfruttatori" (in passato avrei scritto "più sano"), e con esse i lavoratori stessi, rispetto alla concorrenza fatta con lo sfruttamento.

Così a naso, la butto lì: siccome sono gli altri Stati ad avvantaggiarsi della cosa creando problemi al nostro, facciamolo diventare un loro problema: embargo all’importazione di prodotti presso di loro, in modo tale che, se non vogliono adottare politiche di protezione dei propri lavoratori, siano le ditte stesse a non trovar più così conveniente produrre là... visto che poi non possono più vendere qua.

Oppure, senza embargo, un meccanismo più capillare, anche se più difficile, di compensazione sui prodotti: se il tal oggetto, prodotto qui, verrebbe a costare 1000, mentre prodotto "altrove" costa 500, tassa d’ingresso di 500. Per "costo" non intendo il ricavo, chiaramente, ma il guadagno: bisogna incidere su quello perchè ovviamente le ditte non vendono, sul nostro mercato, al 50% se i loro costi si dimezzano, ma rimarranno sui prezzi del mercato stesso, magari poco sotto "per esser competitivi" (e grazie al c..o che si è competitivi, abbattendo in questo modo i costi di produzione: son capaci tutti a fare i gay col c..o degli altri). Bisogna colpire sugli indebiti guadagni verificando che, nello Stato di provenienza, i lavoratori abbiano percepito uno stipendio che sia "comparabile" al nostro. E qui entriamo in dettagli complessi rispetto al "costo della vita". Complessi ma non irrisolvibili: alla fine è pur vero che un operaio del sud Italia prende mediamente meno di uno del nord proprio in quanto il costo della vita, al sud, è inferiore: son discorsi già visti, già fatti ed applicabili anche a Stati diversi.

Dove distribuire i proventi della tassa d’ingresso? ma ovviamente ai nostri lavoratori, partendo dai disoccupati. La critica a questo sarebbe che, così facendo, se l’azienda continua a voler vendere qui, aiuteremmo l’impoverimento dei lavoratori del paese di provenienza delle merci. Ma questo si scontra con la (non) convenienza di un’azienda che, oltre a produrre all’estero, deve anche affrontare delle spese per portare le merci qui: più spese e meno guadagni.

Sky


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