“FINE PENA MAI”
Si fanno sempre raffronti tra chi entra ed esce dal carcere, si addita l’uno o l’altro a seconda del
temporale politico in atto, discutendo se sia giusto aiutare il detenuto a
ravvedersi, fin’anche mortificando il
perdono, sebbene convissuto con reciproca consapevolezza.
Ergastolo, "fine pena mai", il dazio da pagare per il male
fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività,
che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste.
Che non ti assolve.
Sbarre appese alla memoria per ricordare; 30 o 35 anni di carcere scontato, decenni di ferro
sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un’apnea che restringe i polmoni e
costringe l’uomo a straripare in universi sconosciuti.
Un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia alla
morte di ogni umanità, creatività e fantasia, in carcere da tanti anni e la
scena su questo palcoscenico sotterraneo di carne e sangue, é lo specchio di un
qualcosa a cui nessuno intende guardare.
Nonostante il carcere e questa condanna che scorre circolarmente in un
inseguimento a ritroso, occorre
ritrovare il senso di una capacità di partecipazione, di accoglienza, in un
sentire autentico, e non perché si é disperati, per sfuggire gli attimi in cui
ci si sente estranei tra tanti, alienati a tal punto da non capire più nulla.
L’uomo come ogni essere vivente è in continua evoluzione, eppure
qualcuno si ostina a pensare che esista la persona deviante irrecuperabile,
allora la società come deve adoperarsi affinché questa trasformazione possa
avverarsi?
Espiazione non può essere mera sopportazione di un male imposto, ma
riconciliazione con se stessi e gli altri, una trasformazione che coinvolge
l’interezza dell’uomo. A volte c’é
questo sorprendente incontro con gli altri che ci attende, c’é lo stupore di
ritrovarsi al cospetto dell’universo interiore in noi, che ci conduce sul
sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo
alle proprie forze, alle proprie energie.
In questo carcere che stenta a recuperare alla società, finchè esso
stesso non sarà recuperato dalla società, c’è bisogno di accompagnare il dolore
con le parole di una giustizia equa,
per imparare ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la
scrittura, la mediazione, i rapporti umani finalmente sbocciati, mantenuti e
cresciuti, nel tentativo di modificare questa dimensione disumanizzante in un
luogo ancor aperto ad alternative di conoscenza e mutamento interiore.
Si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti, il carcere
c’è, è là, ma si tende a ignorarlo, non è percepito come un problema sociale, non riguarda la parte buona, che
preferisce rimuovere: ma questo atteggiamento produce un distacco profondo tra
carcere e società.
Ergastolo e carcere, spesso una sofferenza per lo più amministrata,
imposta e sempre meno vicina a un dolore "vissuto in due".
Ergastolo e nuovi impegni, nuove responsabilità, al di là della gabbia che circonda,
mostrando la differenza dell’uomo della condanna, dall’uomo della pena, e
convincersi che occorre affidarsi a una pena che sia solo un tragitto di vita,
che parta dalla dignità della persona, dalle sue capacità e risorse.
Vincenzo Andraous