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 Home page > Tribuna Libera > 64 i suicidi del 2009 nelle carceri. L’ultimo in un carcere minorile

64 i suicidi del 2009 nelle carceri. L’ultimo in un carcere minorile

Sarò breve a scrivere (copio solo righe di cronaca) forse tanto quanto avrà impiegato ad uccidersi, impiccandosi in bagno, un giovane marocchino che stava per compiere 18 anni nell’Istituto penale minorile Meucci di Firenze. Va aggiornato il dato del dossier morire di carcere: 64 suicidi dall’inizio dell’anno, totale 155 morti.

 

Dall’Ansa

Si è ucciso alla vigilia del suo diciottesimo compleanno, schiacciato da una detenzione che non sopportava più. Un ragazzo marocchino si è impiccato nell’istituto penale minorile Meucci di Firenze. Era arrivato lì da poco tempo. Le forze dell’ordine lo avevano sorpreso a Lucca mentre cercava di rubare. Tentato furto era l’accusa per cui era detenuto: il processo era stato fissato per il 23 novembre prossimo. Una storia di solitudine e di disagio profondo quella del giovane venuto dal Magreb e finita in un penitenziario.

“Era solo ed aveva bisogno di un altro tipo di assistenza”, rivela Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze. Forse gli addetti non hanno capito il suo disagio, così come i suoi compagni di cella non hanno intuito che qualcosa di tragico si stava consumando a un metro da loro. E tra chi si occupa di giustizia minorile ora c’é sconforto e dolore. Sono le 18, è il momento della doccia. Tocca al giovane marocchino: poche parole con gli altri tre detenuti e l’ingresso nel bagno. Il ragazzo ha già deciso tutto: porta con sé un lenzuolo lo bagna, lo arrotola, lo lega stretto alle sbarre della finestra del bagno. Poi apre l’acqua della doccia, forse per coprire eventuali rumori: sale su una scarpiera, si lega il lenzuolo al collo, si lascia cadere e muore impiccato. Il giudice non lo vedrà, mentre della sua vicenda si sta già interessando il sostituto procuratore della repubblica di Firenze Tommaso Coletta. A scoprire il cadavere del giovane sono stati gli agenti della sorveglianza, chiamati dai compagni di cella che non vedendo uscire il magrebino dal bagno si sono allarmati. Lo hanno chiamato più volte. Dal bagno nessuna risposta, solo il rumore dell’acqua aperta nella doccia. Così sono intervenuti gli agenti che hanno scoperto il ragazzo con il lenzuolo al collo. C’é stato un tentativo per rianimarlo, ma subito i soccorritori si sono accorti che nulla era possibile fare per salvarlo.

E dopo la morte del ragazzo, Corleone lancia l’ennesimo allarme. “In questo anno i suicidi, gli episodi di autolesionismo e le morti in carcere sono stati troppi. E anche per quello minorile di Firenze si comincia a parlare di sovraffollamento. Una sezione è chiusa per carenza di personale e nell’altra abbiamo registrato anche fino a 28 presenze: troppe. Dobbiamo avere il coraggio di avviare un discorso nuovo. Serve più coraggio. Serve una struttura aperta e non il microcarcere che scimmiotta quello per adulti. Questo ragazzo non aveva bisogno del carcere, ma di altro”.

Dalla banda di caricamento… un saluto per chi non si è “integrato”

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.65) 22 novembre 2009 09:18

    GIUSTIZIA CHE NON ABBANDONA MAI NESSUNO AL PROPRIO DESTINO

     

    C’è una distesa di sangue e di corpi intorno a noi, è scompaginata la storia sotto di noi, è in atto un vero e proprio abbattimento dei sentimenti.

    Scorrono le immagini alla tv, le foto sui quotidiani, i labiali dei commentatori sembrano ghigni, alla meno peggio scrollate di spalle, l’obiettivo da raggiungere è convincere, non stabilire come lo si fa.

    Eppure in carcere il cittadino muore a ritmo di sei detenuti al mese, in strada si cade tumefatti da entità invisibili, si spara alle spalle, alla testa, nel mucchio, è tutto un video show che non trattiene commozione, unicamente scariche di adrenalina a poco prezzo, infatti “non succede a me, accade agli altri”.

    C’è chi ricatta, chi compra, chi vende, per qualcosa di ipocritamente proibito, chi addirittura inventa un gioco nuovo in una sociologia vetusta, per riuscire a sentirci innocenti di essere colpevoli, per una realtà altamente ingiusta, sino a rendere la vita un salvadanaio che non rigetta monete, neppure quando sono sporche di sangue.

    Il dispendio di violenza fisica, psicologica, verbale, ha decretato la sconfitta dei buoni sentimenti, delle emozioni, meglio renderle inoffensive, e circuirle, e addomesticarle, costringerle mansuete con la disattenzione più colpevole.

    Pena certa, giustizia giusta, chi sbaglia paga, sono diventati slogan per obbligare la mente a non fare il proprio dovere, costringendo in condizioni vergognose pilastri universali come la compassione, la pietà, il perdono, giungendo a mettere al muro della berlina mediatica, quanti non intendono accettare una giustizia che offre verità poco corrispondenti alla realtà.

    Quando si parla di carcere, di punizione, lo si fa senza tentare quanto meno di raggiungere una meta sociale possibile, senza inciampare nelle giustificazioni, nelle spiegazioni più inverosimili, trasformando la speranza di un preciso interesse collettivo in una pratica di minore importanza, rispetto agli interessi presuntamene superiori.

    C’è sempre meno spazio per la commozione, la riflessione, aumenta la spinta a colpire la pancia, a mettere fuori gioco la compassione etico cristiana, quella che si muove dentro ogni persona, e fa cambiare di assetto, di volontà politica, perché coinvolge ognuno a immedesimarsi, a consegnare una risposta, non rimanendo ancorati a una ingiustizia travestita di rancore.

    Tutto ciò non dimissiona alcuna responsabilità, non relega a una parte infinitesimale i frammenti che compongono una persona, la normale anormalità della morte, del dolore e della sofferenza, di chi è vittima e di chi è colpevole, di coloro che scontano la propria condanna e tentano di riparare, di ritornare a essere parte viva del consorzio sociale, nel silenzio laborioso della rivisitazione.

    Quando scompaiono le idee, gli ideali, rimangono le rivalse, le rivincite, che non producono nulla, che non tutelano alcuno, tradendo il compito di aprire a un altro scenario, che può finalmente significare non solo la necessità-esigenza di una riforma, ma la nascita di una giustizia vera, alta, condivisa, davvero, che non assolve né condanna in nome di qualche recondito potere contrattuale,  una giustizia che possiede attenzione sufficiente a non abbandonare mai nessuno al proprio destino.

  • Di (---.---.---.65) 22 novembre 2009 09:20

    CIRCOLO

    SANDRO PERTINI

    TROMELLO

     

    OLTRE LE SBARRE

    Il carcere tra diritto alla sicurezza e

    dovere della rieducazione

     

    Conversazione pubblica

     

     partecipano

    VINCENZO ANDRAOUS

    Tutor e responsabile servizi interni

    della Casa del Giovane di Pavia

     

    PATRIZIA ROMANO

    Responsabile provinciale PD

    per la giustizia e sicurezza

     

     

    SALA RIUNIONI

    MUNICIPIO DI TROMELLO (PV)

    (ingresso da via Laboranti)

    VENERDI’ 27 NOVEMBRE

    ore 21.00

    Tutti i cittadini sono invitati

     

    Referente la Dott.ssa Paola Comelli 347-5309715

  • Di (---.---.---.65) 22 novembre 2009 09:21

    “FINE PENA MAI”

    Si fanno sempre raffronti tra chi entra ed esce dal carcere, si addita l’uno o l’altro a seconda del temporale politico in atto, discutendo se sia giusto aiutare il detenuto a ravvedersi, fin’anche mortificando il  perdono, sebbene convissuto con reciproca consapevolezza.

    Ergastolo, "fine pena mai", il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività, che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste. Che non ti assolve.

    Sbarre appese alla memoria per ricordare; 30 o 35 anni di carcere scontato, decenni di ferro sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un’apnea che restringe i polmoni e costringe l’uomo a straripare in universi sconosciuti.

    Un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia alla morte di ogni umanità, creatività e fantasia, in carcere da tanti anni e la scena su questo palcoscenico sotterraneo di carne e sangue, é lo specchio di un qualcosa a cui nessuno intende guardare.

    Nonostante il carcere e questa condanna che scorre circolarmente in un inseguimento a ritroso, occorre ritrovare il senso di una capacità di partecipazione, di accoglienza, in un sentire autentico, e non perché si é disperati, per sfuggire gli attimi in cui ci si sente estranei tra tanti, alienati a tal punto da non capire più nulla.

    L’uomo come ogni essere vivente è in continua evoluzione, eppure qualcuno si ostina a pensare che esista la persona deviante irrecuperabile, allora la società come deve adoperarsi affinché questa trasformazione possa avverarsi?

    Espiazione non può essere mera sopportazione di un male imposto, ma riconciliazione con se stessi e gli altri, una trasformazione che coinvolge l’interezza dell’uomo. A volte c’é questo sorprendente incontro con gli altri che ci attende, c’é lo stupore di ritrovarsi al cospetto dell’universo interiore in noi, che ci conduce sul sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo alle proprie forze, alle proprie energie.

    In questo carcere che stenta a recuperare alla società, finchè esso stesso non sarà recuperato dalla società, c’è bisogno di accompagnare il dolore con le parole di una giustizia equa,  per imparare ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la scrittura, la mediazione, i rapporti umani finalmente sbocciati, mantenuti e cresciuti, nel tentativo di modificare questa dimensione disumanizzante in un luogo ancor aperto ad alternative di conoscenza e mutamento interiore.

    Si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti, il carcere c’è, è là, ma si tende a ignorarlo, non è percepito come un problema sociale, non riguarda la parte buona, che preferisce rimuovere: ma questo atteggiamento produce un distacco profondo tra carcere e società.

    Ergastolo e carcere, spesso una sofferenza per lo più amministrata, imposta e sempre meno vicina a un dolore "vissuto in due".

    Ergastolo e nuovi impegni, nuove responsabilità, al di là della gabbia che circonda, mostrando la differenza dell’uomo della condanna, dall’uomo della pena, e convincersi che occorre affidarsi a una pena che sia solo un tragitto di vita, che parta dalla dignità della persona, dalle sue capacità e risorse.

    Vincenzo Andraous

  • Di Doriana Goracci (---.---.---.122) 22 novembre 2009 09:50
    Doriana Goracci

    "Non mi reputo uno scrittore né un poeta, credo di avere qualcosa da comunicare, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno, o salvare alcuno dal proprio destino. Raccontarci la nostra storia personale può significare la nascita di una amicizia, di un sentimento gratuito, allora anche la mia storia, la mia gran brutta storia può diventare motivo di riflessione per tentare di intravedere il pericolo dei rischi estremi, in quel mito della trasgressione che spesso diviene devianza…e poi risalire dal baratro diventa difficile. Sono una persona che disegna con le parole ciò che sente, non sono visivo, ma uditivo nel mio percepire le cose, i fatti, le persone. Ho imparato a scrivere leggendomi e credo sia importante leggere ciò che la mente e il cuore tracciano, perché sono orme e impronte digitali che sovente inducono ad ascoltare note nascoste ben al di sotto del primo strato. Vincenzo Andraous"

    Musica per le nostre orecchie basta solo volerlo, basta ascoltare e ascoltarsi. La ri-carica avviene anche e sopratutto così. Grazie Vincenzo Doriana


     

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