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 Home page > Tribuna Libera > Articolo 18: l’ultima follia di Alfano

Articolo 18: l’ultima follia di Alfano

Siamo tutti abituati ormai alle assurde dichiarazioni di esponenti di partiti come il Nuovo Centro Destra, movimenti neo-democristiani che si ammantano, con scarsissimi risultati, di liberismo vista la popolarità di questa dottrina in tempi di crisi e recessione, e che pretendono di imprimere una "svolta liberale" all'economia italiana (argomento trito e ritrito da un ben noto politicante, palazzinaro e affarista dei nostri tempi). 

Tutto ciò non sarebbe poi così grave se non proponessero misure volte a devastare il mondo del lavoro; uno di questi provvedimenti riguarda proprio l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che, per intendersi, tutela il lavoratore dipendente dal licenziamento arbitrario fornendo anche un valido scudo contro la prevaricazione padronale.

In questi giorni il tema sembra essere tornanto alla ribalta grazie alle dichiarazioni del ministro Angelino Alfano (che vista la sua preparazione in materia di lavoro e di sociale farebbe meglio a tacere e ad occuparsi dell'emergenza migranti, cosa che non solo gli competerebbe di più, visto il suo ruolo di titolare del dicastero degli Interni, ma che forse dovrebbe gestire meglio), il quale ha dichiarato di essere intenzionato a trovare un accordo col governo per la definitiva abolizione dell'articolo 18: secondo lui la soppressione di questo "architrave" dei diritti dei lavoratori favorirebbe l'occupazione e la crescita, in quanto le imprese assumerebbero più dipendenti (alcuni imprenditori non assumono più di quattordici persone per invalidare l'articolo 18 che è effettivo solo per le aziende con almeno quindici dipendenti) e flessibilizzerebbe il mercato del lavoro (come se non fosse già abbastanza flessibilizzato e come se condannare alla precarietà e alla disoccupazione milioni di persone fosse un fatto positivo).

Analizzando bene il problema ed evitando di fare i "liberisti dell'ultima ora", cercando di propinare soluzioni demagogiche, opportuniste e peggiorative nel tentativo di porre rimedio a qualcosa di molto grave, non è difficile capire come abolire l'articolo 18 significherebbe infliggere un durissimo colpo alle conquiste sociali dei lavoratori e segnare un regresso proprio in quello stesso ambito (regresso spacciato per progresso): con l'abolizione dell'articolo 18 sarà estremamente più facile licenziare e nessun diritto spetterà a quel lavoratore licenziato, magari anche ingiustamente. Sono gli stessi imprenditori, la maggioranza, che si schierano in favore di tale tutela giuridica, spiegando che sono ben altre le cose che frenano lo sviluppo e la crescita: una burocrazia soffocante, una pressione fiscale insostenibile (ricordiamo che il " free tax day" è fissato al 29 settembre, ciò significa che nei primi nove mesi dell'anno gli imprenditori lavorano solo per pagare le tasse), carenze infrastrutturali, costi proibitivi, prezzi dell'energia alle stelle, ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, l'ingerenza della criminalità organizzata nei loro affari. 

Sarebbe quindi più opportuno, invece di farsi venire idee malsane come questa, risolvere i problemi degli imprenditori, alleggerirne le incombenze fiscali e burocratiche, finanziarne la ripresa e favorirne lo sviluppo, e allo stesso tempo blindare i diritti dei lavoratori e creare occupazione (occupazione non precarietà come intendono i nostri governanti, quindi posti di lavoro fissi).

Questa proposta si basa su un grande errore politico e strategico ed è di per sé fallimentare: è inammissibile perseguire la competitività, la crescita e lo sviluppo sulla compressione dei diritti altrui e sulla altrui inevitabile rovina e remissione. Una misura scellerata come questa aggraverebbe ulteriormente la già devastata situazione economica e sociale italiana: molti lavoratori perderebbero il posto senza possibilità di riaverlo né di essere assunti altrove (andando ad ingrossare le fila di coloro che sono disoccupati ma troppo giovani per avere una pensione e troppo vecchi per essere riassunti), senza contare il precariato che imperverserà più di quanto già non faccia.

La soluzione più ragionevole è quella di abolire, al contrario, le leggi che generano precariato o, per dirla con i nostri governanti, "flessibilità" (Biagi, Treu, Sacconi ecc.) e allo stesso tempo investire sulla piccola e media impresa (Eh si! Fare spesa pubblica in tempi di crisi paradossalmente serve a dare la spinta e a far ripartire l'economia, l'austerità in tempi di recessione è controproducente) agevolandole anche da un punto di vista fiscale e burocratico. 

Che strano Paese è il nostro: finanziamo le grandi industrie (come la Fiat che nel corso degli anni ha incassato più di 7 miliardi di euro di soldi pubblici) ma non ci preoccupiamo minimamente delle piccole e medie imprese, che sono la linfa vitale della nostra economia; vogliamo creare occupazione ma creiamo invece precariato e disoccupazione, e non contenti defraudiamo i lavoratori anche dei loro più elementari diritti. La prossima proposta quale sarà Togliere il sussidio di disoccupazione o la pensione di anzianità perchè troppo costosa per le casse dello Stato e immeritata da coloro che la percepiscono in quanto improduttivi, sempre in un'ottica liberista ormai imperante

In conclusione: tutelare i lavoratori e allo stesso tempo garantire lavoro significa spingere l'economia verso la ripresa; non tutelare i lavoratori, comprometterne, annichilirne e comprimerne i diritti è il miglior modo per distruggere del tutto un'equilibrio economico già molto fragile e vicino al collasso in un Paese come l'Italia che di certo non vive di capitalismo e di mercato, ma di piccola e media impresa, di lavoro salariato, autonomo e professionale, di artigianato, commercio, manifattura, turismo, cultura e anche di settore pubblico. Riflettano quindi i nostri governanti su ciò che è meglio invece di prendere provvedimenti inutili e dannosi condannando definitivamente questo Paese al fallimento.

 

Foto: Pascal Terjan, Flickr

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