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Lampedusa: dopo la tragedia torna il ricordo di un’estate e la voglia di guardarsi allo specchio

Avevo da tempo in animo di condividere con voi questa storia; storia per cui temevo di non saper trovare le parole giuste. Ma questo timore, che – sono sincero – ancora vive in me, non può e non deve vincere nei confronti di quel sussulto d’indignazione che ho provato nel percepire le immagini e i suoni di quel che è successo a Lampedusa lo scorso 3 ottobre. E non solo: con il passare del tempo e dei mesi si sviluppa, sempre più forte in me, la consapevolezza che qualcosa è cambiato e tacere non sarebbe più consentito. Si avvicina, inoltre, il periodo delle vacanze estive e immagino che raccontare la mia storia possa essere da stimolo per quanti di voi abbiano lo stesso identico sussulto d’animo nel voler essere partecipi in prima persona, magari proprio nella prossima estate, della sfaccettata realtà lampedusana.

Ho partecipato, nel luglio dell’anno scorso, a un campo estivo promosso da Amnesty International proprio a Lampedusa, un minuscolo lembo di terra alle porte d’Europa. In quell’occasione, insieme a una settantina di partecipanti provenienti da tutta Italia, abbiamo avuto occasione di conoscere le tre grandi realtà che simbolicamente possono rappresentare il senso e l’identità della piccola isola: l’ambiente, gli abitanti e i “passanti”.

Appartenente all’arcipelago delle Pelagie, Lampedusa è considerata una delle realtà ambientali più importanti d’Italia: solo alcune delle attrazioni ambientali che l’isola offre sono l’isolotto dei conigli, la cui spiaggia è considerata, nella valutazione 2013 del sito TripAdvisor, la più bella al mondo, riconfermata poi nella classifica del “Traveler Choice 2014” come più bella d’Europa; e la “Riserva Naturale” istituita nel 1996 al fine di preservare l’habitat naturale delle diverse specie animali e vegetali presenti sull’isola. Una meta, dunque, squisitamente turistica e che per questo e solo per questo dovrebbe poter far riecheggiare il proprio nome in giro per il mondo. Ma, come sappiamo, purtroppo non è così.

Ed è qui che si inizia a comprendere le componenti più “umane” riferite al piccolo lembo di terra del Mediterraneo: gli abitanti e quelli che, poco fa, ho definito “passanti”. Due realtà “umane”, appunto, che si potrebbero quasi confondere tra loro ma che è bene distinguere e, anzi, comprendere nelle innumerevoli variazioni di genere di cui tali realtà sono composte: turisti, abitanti, visitatori, migrati, rifugiati, attivisti, amici, nemici. Tutti uomini, tutte donne, tutti bambini. Tutti, ma con coscienze e speranze spesso troppo abissalmente distanti tra loro.

Sono arrivato a Lampedusa quasi incosciente di quel mi avrebbe aspettato nei successivi sette giorni; giorni che invece mi hanno profondamente segnato. Abbiamo, come facilmente immaginabile, cominciato il percorso con un approfondimento di conoscenza su cosa sia Amnesty International e su quali siano gli obiettivi dell’associazione legati all’immigrazione e, nello specifico, a Lampedusa. Abbiamo avuto così modo diconoscere persone e storie d’intenso significato: solo per citarne alcuni, Alessandra Ballerini, avvocato che dedica ormai da anni la sua intera vita e la sua professione alla tutela legale di coloro che, spinti da speranze di un possibile domani, approdano sull’isola; e Fabrizio Gatti, giornalista de L’Espresso che fingendosi africano ha attraversato il Sahara sui camion e si è fatto arrestare come immigrato clandestino per raccontare, in un libro poi pubblicato da Rizzoli, gli atti eroici e le tragedie che accompagnano i protagonisti di una conquista incompiuta nel mercato dei “nuovi schiavi”.

Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International che si impegna, da anni, nell’analisi della comunicazione mediatica nell’ambito dei diritti umani, smontando, parola per parola, alcuni infondati luoghi comuni diffusi, volenti o nolenti, dai mass media; l’Associazione “Colors Revolution”, che affronta il tema dei diritti umani a Lampedusa attraverso immagini e colori; Lorenzo Terranera, artista e vignettista che ha saputo portare arte e simbolismo nella lotta di dignità che, oggi più che mai, coinvolge la parte più estrema dell’Europa.

Ecco, sono conscio che i nomi da fare in questo elenco sarebbero davvero molti di più, ma proprio su Lorenzo Terranera vorrei soffermarmi. Sì, perché è con lui che su quell’isola, nella seconda metà della settimana di campo, ci siamo improvvisati artisti: tra qualche risata e molte riflessioni abbiamo disegnato, su di un muro, delle candele. Delle candele per ringraziare, delle candele per accogliere, delle candele per sperare. E anche, ahi noi, per coloro che si sono dovuti arrendere al mare. Mai, in quel momento, avremmo potuto pensare che quelle stesse candele avrebbero dovuto, poche settimane dopo, dare il “benvenuto” a tante, troppe aspirazioni di dignità stroncate da una comune responsabilità di cui tutti, oggi, dobbiamo sentire il peso. Una tragedia, quella del 3 ottobre, che a distanza di mesi non ha purtroppo portato consapevolezza e sviluppi in una situazione di cui troppo facilmente ci si dimentica.

Quello di ottobre, si diceva, era (e guai se non lo fosse stato) il momento di silenzio, preghiera e riflessione. Ma non sarebbe dovuto essere (come purtroppo forse è accaduto) anche l’alibi per tornare a dimenticare l’indomani. Per questo riappare vivo oggi in me l’augurio che quelle vite spezzate non siano finite invano, il desiderio che siano, anzi, lo stimolo per una maggior azione collettiva nella prospettiva di un mondo almeno un poco più dignitoso. Mi sento dunque, riproponendo a voi queste mie riflessioni, di chiedere a tutti di guardarsi, una volta per tutte, allo specchio.

 

di Giorgio Moranda

 

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