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 Home page > Tribuna Libera > Viviane e il divorzio ebraico

Viviane e il divorzio ebraico

Dopo essermi dilettato nella ricerca sul matrimonio endogamico degli ebrei, non potevo non interessarmi anche del divorzio, visto il successo mediatico di un film israeliano di prossima programmazione - Viviane - che, a giudicare dal trailer, sembra essere molto intenso e bello oltre che interessante per il particolare argomento trattato.

Già da come la stampa ha presentato la vicenda, si capisce che la questione è delicata e, soprattutto, poco comprensibile per chi ha scarsa dimestichezza con la legge ebraica che, tanto per chiarire, in questo è identica a quella islamica.

Perché di tradizione si tratta: la legge ebraica consente la separazione dei coniugi perché il matrimonio non è un sacramento, come per i cristiani, ma un contratto. Anche se è un contratto che si celebra in ambito religioso e gestito dal rabbinato.

Questo fa del diritto matrimoniale un aspetto della vita religiosa che viene osservato scrupolosamente dagli ebrei ortodossi e dagli haredim (ultraortodossi) della diaspora, mentre le altre correnti dell’ebraismo più moderno - riformato e conservative (che a dispetto della denominazione è comunque meno conservatore di quello ortodosso) - sono molto più permissive al proposito.

Il problema quindi riguarderebbe solo gli ebrei più rispettosi della tradizione. Gli ebrei della diaspora naturalmente, ma non quelli israeliani; perché in Israele non esiste un matrimonio civile e di conseguenza non esiste nemmeno un divorzio civile. Tutto deve passare da un tribunale rabbinico, nelle forme previste dalla normativa della tradizione halachica, cioè, appunto, della legge ebraica.

Che contempla il divorzio o nella forma del ripudio della donna da parte del marito con cui si procede allo scioglimento del contratto; l’uomo consegna alla moglie il documento di separazione chiamato ghet. La moglie così è libera e può farsi una nuova vita.

Quindi tutto bene per l'uomo che vuole divorziare o anche per entrambi, se sono d'accordo nel farlo.

Ma non se è la donna che vuole tornare libera esha davanti un uomo che le si oppone. Perché il ripudio dell’uomo da parte della donna non esiste.

Il che pone dei bei problemi in tema di parità dei sessi, come ovvia conseguenza di una normativa decisa in tempi di patriarcato accentuato, quando le questioni patrimoniali delle famiglie allargate ostacolavano certe libertà individuali (sempre della donna, sia chiaro).

La stessa normativa però, proprio per cercare di riequilibrare le cose, permetteva alla donna di appellarsi ad un collegio rabbinico perché convincesse il marito a concederle la separazione legale. Il tribunale, infatti, non sentenzia la separazione; può solo fare pressioni sull’uomo per convincerlo ad accettarla.

I tribunali rabbinici - contrariamente a quello che viene raccontato nel film, girato ovviamente per sollevare il caso della mancanza di un diritto di famiglia non religioso in Israele - molto spesso riuscivano a convincere i mariti a prendere atto della insostenibilità di un legame con una donna che non lo voleva più.

E nel passato non esitavano a ricorrere alle maniere forti in caso di mariti particolarmente riottosi e a fronte di richieste femminili ben motivate (ad esempio l’insoddisfazione sessuale femminile è ed era un motivo riconosciuto valido per il divorzio addirittura da un precetto talmudico). Ma anche non molti mesi fa un rabbino americano è stato arrestato perché faceva “trattare” i mariti “resistenti” in modo un po’ troppo brusco (in realtà in puro stile mafioso e facendosi pure pagare salato dalle mogli).

Una studiosa femminista, Annie Goldmann, riporta il caso di un uomo così ostico da finire in prigione e passarci la bellezza di 35 anni, fino alla morte. Lui non aveva mai ceduto all’idea di ridare la libertà alla moglie, ma nemmeno il tribunale rabbinico aveva mai desistito dall’idea di costringercelo.

In realtà casi simili sono rari; meno rari sono i casi di mogli che restano in una situazione di non sposate-non divorziate, impossibilitate quindi a rifarsi una vita, se non vivendo fuori dalle regole, con eventuali altri figli ritenuti illegittimi dalla normativa. La Goldmann, una ventina di anni fa, parlava di circa 12mila casi in Israele; che non sono certo pochi.

Oggi il tasso di divorzi in Israele è del 1,7 per mille, appena meno della media dei paesi occidentali, ma il doppio dell’Italia (0,9); più alto della media dei paesi sudamericani e in linea con alcuni paesi islamici (Turchia 1,6 - Tunisia 1,2 - Emirati Arabi Uniti 0,9 - Iran 1,3 - Algeria 2,1 - Egitto 1,9 - Libano 1,4).

Insomma la questione del ghet non sembra inficiare più di tanto la decisione femminile di divorziare. Ma le polemiche sulla mancanza, nel paese, di un diritto di famiglia civile non si placano, con una grande maggioranza di cittadini a favore di una secolarizzazione del diritto di famiglia che però non trova una sponda politica sufficientemente indipendente dai partiti religiosi.

C’è da dire che, per quasi una ventina di secoli, alle donne cristiane era impossibile divorziare, cioè rompere il sacramento del matrimonio, mentre le ebree avevano la possibilità (o la speranza) di poter convincere i mariti o di farli convincere dal tribunale a liberarsi da rapporti non validi.

Ma ovviamente c’era anche il caso che finissero nei guai, non libere di rifarsi una vita, per colpa di uomini astiosi e vendicativi.

In ogni caso, se in Italia ci sono voluti venti secoli per liberarsi di una normativa liberticida (e si ringrazino di nuovo i Radicali), può darsi che a Israele serva ancora un po’ di tempo per scrollarsi di dosso le imposizioni di legge imposte dalla religione.

Prima succederà e meglio sarà perché questo è un altro di quegli elementi cui si attaccano i soliti noti per accusare lo stato ebraico di ogni nefandezza (scordandosi però, con sconcertante regolarità, delle nefandezze altrui).

 

 

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