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Viviane, di Ronit e Shlomi Elkabetz

(Le Procès de) Viviane, di Ronit e Shlomi Elkabetz. 115 minuti di un film che tiene legati allo schienale della poltrona: ci si vorrebbe liberare della ragnatela kafkiana di leggi, tra ebraiche, di costume e residualmente costituzionali, che tengono legata Viviane Ansallem al marito da cui chiede il divorzio, invece non riusciamo a distoglierci dalle immagini, si spera che alla fine il buon senso vinca e che questa donna riottenga la sua libertà.

Lei è la star del cinema israeliano, l’affascinante 50enne Ronit Elkabetz – fattezze materne e nel film un viso sereno che dovrebbe esplodere di fronte all’ottusità del diritto – la quale del film è regista insieme al fratello più giovane Shlomi. L’ambientazione è in una fatiscente e scarna aula di giustizia israeliana, dove la corte è formata da tre rabbini e dal loro cancelliere che trascrive le deposizioni. Quasi inutile dire che si tratta di una pellicola bellissima, lega letteralmente alla poltrona.

Ci si vorrebbe liberare dal racconto di una separazione che secondo le leggi, ma più secondo il costume e la religione ebraica di stretta osservanza, è impossibile. Una cosa che in qualsiasi altro paese occidentale verrebbe sbrigata in breve tempo, solo prendendo atto della volontà di una delle parti (forse solo ancora in Italia le cause di divorzio durano tanto). Per arrivare alla fine delle udienze, rimandate di settimane bimestri e trimestri, occorreranno cinque anni e la “vivisezione” di un matrimonio durato una trentina d’anni, dopo un fidanzamento iniziato quando Viviane era 15enne, l’aver messo al mondo quattro figli e la coabitazione ventennale forzata con una suocera di origini marocchine.

Ai vari teste viene chiesto se i due litigavano, se l’uomo avesse difetti fisici, se lei ha un pretendente: viene così fornita la concezione del matrimonio da parte dei testimoni e degli avvocati, uno spaccato del costume ebraico. Per un’amica della donna i due sono semplicemente incompatibili, non vanno d’accordo, si può costringerla a non separarsi e sottostare a quella tortura? Per una vicina di casa ubbidiente e vittima del suo consorte in fondo i mariti vogliono solo rispetto, la pace della casa e salve le apparenze, il buon nome, l’onore, la perseveranza, una donna saggia sa quando parlare e quando tacere. In fondo la donna in questione – o sotto processo, il titolo originale è infatti Le Procès de Viviane Ansallem - ha la sicurezza, i beni materiali di cui abbisogna, lavora, ha un negozio, potrebbe perfino viaggiare e uscire con gli amici. Del resto poi quello della divorziata è un ruolo “sconveniente” nella società, forse un pericolo pubblico (come la Glenn Close di Attrazione Fatale). Il marito è solo pignolo, ma in fondo è esemplare e tratta la moglie in modo esemplare: non hanno ricongiungimenti carnali da anni ormai, non le ha mai messo le mani addosso e fa quello che deve fare. Decenza e morigeratezza:  questo deve avere agli occhi degli altri una moglie osservante delle regole. E poi lui la ama, lei è il suo destino, dice. Ma non ha difetti, è un uomo perfetto, va alla sinagoga e non rinuncia ai precetti, vorrebbe la casa gestita secondo regole ebraiche e lei non lo fa (musica e motivo di colpevolezza per le orecchie dei rabbini …).

A Viviane quella vita ha provocato sofferenza e amarezza ed ora solo il marito Elisha ha il potere di concederle il divorzio, lei lo può solo implorare. E’ la libertà della donna in mani del marito. Dopo tante udienze si arriva alla conclusione, Elisha ha accettato di darle il divorzio, fisicamente un pezzo di carta scritto dal rabbino: il marito lo dà alla moglie che attende a palme aperte – come le ostie del rito cattolico – ma … c’è ancora un “ma”: la formula di rito prevede che lui le dica sei permessa a qualunque uomo e questo Elisha non riesce proprio a dirlo. Viviane dovrà fargli una promessa per ottenere quella “concessione”, un voto di castità praticamente, che speriamo sciolga presto.

N.B. Il cinema è una storia che ci viene raccontata da altri e fatalmente con quella storia ci confrontiamo: qui si tratta dell’ottusità o cecità di certe norme, di costume o legali. Come non pensare che in Italia le norme le contravviene chi ha potere e mezzi per farla franca e poi si dà una multa a un pedone 85enne che a Pinerolo attraversava la strada troppo lentamente?

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