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Vittoria, sconfitta, nuova offerta: come cambia il linguaggio della politica

Cosa nascondono? Perché temono il giudizio dei cittadini? Perché parlano un linguaggio incomprensibile? E’ la decadenza di un sistema destinato a scomparire. Forse…

La nostra personalissima definizione di antipolitica coincide con quello che si verifica nel momento storico in cui, a causa di stravolgimenti di ordine economici e sociali che sono in nesso di consequenzialità. Otteniamo così un azzeramento pressoché totale del dibattito politico, ridotto a rozza cagnara, per colpa di interpreti impreparati e disinteressati, alle dinamiche di conflitto che possono divampare negli strati della società.

Da più parti si assiste ad un tentativo di riscossa, che parte dalle dirigenze delle sigle politiche coinvolte nella disastrosa gestione della res publica degli ultimi vent’anni. Purtroppo, spesso e volentieri, si assiste ad un tentativo di riconfezionamento del medesimo prodotto: già, perché ormai è a questo che si è ridotta la “politica”. Casini cambia nome al moribondo UDC, vecchio, superato conglomerato di interessi che non riscuote più il successo elettorale. Alfano promette una nuova creatura, con le stesse facce incartapecorite che hanno ridotto l’Italia sull’orlo del conflitto sociale. Anche il PD, per non ammettere la cocente sconfitta di Parma, deve consolarsi sciorinando fieramente i successi di Abbiategrasso ed altri comuni minori, ricchi di dignità storica ma ben poca cosa dal punto di vista statistico. La formula della “non vittoria” bersaniana, in relazione alla Stalingrado grillina, è quanto di peggio possa uscire dalla bocca di un leader di partito incapace di assumersi le responsabilità connesse al sostegno ad un governo non gradito al popolo.

Si assiste ad un cambiamento sostanziale del modo di rivolgersi all’elettorato: non più un’idea o una piattaforma programmatica, ma un consenso su un prodotto politico.

Adesso si parla di offerta politica: di partiti che devono cambiare l’offerta, di offerta non adeguata a rispondere alla domanda.

L’adesione, ad un disegno amministrativo e di governo, è paragonata al 3×2 dell’ipermercato di turno. Quello che una volta era un marchio indelebile di diverso colore sulla pelle dei cittadini, gli stessi pronti a scendere in piazza e protestare esprimendo il dissenso anche in modo esasperato e non pacifico, è diventato un volantino pubblicitario, del tutto simile a quelli che intasano le cassette della posta degli italiani.

Adesso i partiti vestono i panni dei commercianti, debbono offrirsi ai clienti, costruiscono su internet un customer service con risposte automatiche alle legittime email inviate loro dai cittadini.

In pratica, chi dovrebbe decidere dell’alta amministrazione di sessanta milioni di cittadini risponde alla logica del mercato, tenendo però a bada il profitto, ma senza venire a capo del bandolo dell’intricatissima matassa.

Sia chiaro che in giorni come quelli che stiamo vivendo, chiunque rinunciasse al finanziamento pubblico e all’indennità parlamentare (magari ridimensionandola in maniera sostanziosa), incrementerebbe di un buon 10% la propria clientela (si perdoni a chi scrive l’involontario sarcasmo).

Populismo? Qualunquismo? Forse, ma sempre di qualità migliore all’alta politica di chi ormai considera i fatti istituzionali come le brioscine adagiate sugli scaffali di un supermercato, e i cittadini come consumatori di un prodotto dimagrante, con quel che costa il carrozzone istituzionale alle tasche degli italiani.

La riscoperta delle origini storiche e culturali di ogni comunità umana è il primo, unico, solo parametro indefettibile da cui far ripartire la vita istituzionale del nostro martoriato paese.

Cari (aspiranti) rappresentanti istituzionali, il popolo non ha nulla da comprare al Vostro supermarket.

Ma come possiamo pretendere di risollevarci dal baratro, se chi di dovere non comprende il ruolo da assolvere e si trasforma in negoziante per ignari consumatori?

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