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Una vita normale: anche per i rifugiati. L’idea di Naguib Sawiris

Alla fine è spuntato il Rothschild arabo.

Si chiama Naguib Sawiris, è un ricchissimo imprenditore egiziano delle telecomunicazioni, ed ha avuto la stessa idea che il banchiere francese di origini ebraiche Edmond Benjamin James de Rothschild ebbe all’inizio del secolo scorso. Finanziare nuovi insediamenti per i profughi, i fuggitivi, i rifugiati, i migranti (scegliete voi la definizione che ritenete più esatta) in modo da dare loro una nuova opportunità di vita.

Anche un altro magnate ebreo-tedesco, il barone Moritz Hirsch, ebbe la stessa idea di Rothschild, ma a differenza di quello - che finanziava gli insediamenti ebraici (rigorosamente non socialisti) nella Palestina ottomana e poi in quella governata dagli inglesi - Hirsch ebbe l’idea di acquistare ampi appezzamenti di terreno in Argentina. E là si trasferirono infatti alcune migliaia di ebrei russi in fuga dalle persecuzioni e dalla fame. Questa è l’origine avventurosa della maggiore comunità ebraica del continente sudamericano.

Sawiris vuole fare lo stesso: ha avviato un processo di acquisizione di un’isola (forse greca, meno probabilmente italiana) e lì vuole far costruire una nuova città, assumendo come costruttori gli stessi rifugiati. Ha già in mente un nome: Indipendenza.

L’idea non è affatto balzana: costruire una città e mettere in moto tutto il complesso funzionamento di un nuovo insediamento, crea necessariamente grandi prospettive di lavoro; pensate solo a ospedali, scuole, negozi, grossisti, distributori di benzina, meccanici, idraulici, elettricisti, vigili urbani, commissariati di polizia, pompieri insomma tutto quello che abitualmente ci vediamo intorno senza mai chiederci come si sia formato.

Lì sarebbe tutto da fare e si formerebbe ex novo grazie allo start up economico promosso (e promesso) dal miliardario egiziano.

Così nacque Tel Aviv, costruita nel 1905 dal niente, accanto all’antica città araba di Giaffa, dai primi coloni ebrei in fuga dai pogrom in Europa orientale. Cioè nella stessa situazione emergenziale in cui vivono i rifugiati attuali. Oggi è una metropoli nella cui area “grande” vive quasi la metà degli israeliani. E non meno “nuove” furono molte città americane fondate nell’Ottocento.

L’isola dei rifugiati potrebbe essere una soluzione? O l’idea stessa di “isolarli” in un territorio per forza di cose circoscritto prenderebbe il senso della ghettizzazione forzata di chi non avrebbe invece alcuna voglia di essere ghettizzato? O, peggio che mai, l’isola “indipendente” non si trasformerebbe poi, rapidamente, in un semplice pontile di sbarco e di ripartenza per centinaia di migliaia di altri disperati in rotta verso un’Europa già costruita e funzionante?

Prima che si scatenino le solite polemiche tra fautori e denigratori dell’idea, leggete la risposta che Sawiris dà all’inviata del Corriere, Viviana Mazza, che lo ha intervistato: “In Giordania i profughi vivono nelle tende senza far nulla. Che vita è? La bellezza della mia idea è che dai loro una vita normale...”.

E se la comunità internazionale, che finanzia con milioni di dollari la pura e semplice sopravvivenza di molti esseri umani allo sbaraglio, si adeguasse all’idea di supportare per loro la costruzione di “una vita normale”, non sarebbe una prospettiva migliore per loro (e forse anche per noi)?

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