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Una storia sbagliata, di Gianluca Maria Tavarelli

La guerra in Iraq vista da un’altra parte, da quella della gente normale che vive come può. Gli iracheni con strutture ospedaliere di fortuna, poveri, bambini che muoiono di niente; una coppia italiana di Gela che sogna la casa, lei infermiera pediatrica e lui soldato che va e torna dalla guerra. I nostri condottieri americani la chiamarono epicamente Desert Storm e Enduring Freedom, sembrano titoli di kolossal di guerra. Per quelli che in Iraq si facevano esplodere in attentati era semplicemente una jihad, ma dietro i condottieri dell’una e dell’altra parte c’era gente piccola.

E’ un film dal punto di vista originale, questa Storia Sbagliata di Gianluca Maria Tavarelli (dedicato a suo padre): guardare in faccia la famiglia dell’uomo che mi ha distrutto la vita, questo vuole Stefania (Isabella Ragonese), che parte per l’Iraq dopo che il suo uomo è saltato in un attentato. Lui, Roberto (Francesco Scianna), per dare e per darsi sicurezza diceva Il nostro è solo un lavoro, questa guerra non mi ucciderà. Il regista lo ha disegnato come un duro simpatico, coraggioso e anche rude, nel suo modo di possedere la moglie, di quei maschi che sanno il fatto loro, dolcissimi ma che conducono. In qualche tratto pure esagerato, come quell’inizio di amplesso sul tavolo con l’impasto di farina, che potrebbe richiamare alla mente Nicholson e la Lange in Il postino suona sempre due volte, ma era un’altra cosa. Stefania ci si farà trasferire, in Iraq, per lo scopo che ha in mente, non tanto per spirito umanitario, ed è ben strano: lei che pare aver chiuso la faccenda quando i militari le portano a casa la bandiera del suo soldato, la rifiuta, suo marito non c’è più ed allora perché tenerne qualcosa. Eppure parte per conoscere la famiglia dell’uomo che si è fatto esplodere, come a prolungare la sua personale agonia.

Apprenderà che in Iraq, secondo produttore mondiale di petrolio, si fanno code interminabili ai distributori, lei che a Roberto parlava di Gela, del petrolchimico e del miraggio degli anni ’60, di lavoro e di ricchezza, stipendio e benessere che poi si trasformarono in incubo per le malattie, le malformazioni e la crisi ambientale. Anche in questo caso: il petrolio visto da due lati diversi del mondo. Molta parte ha nel film anche la crisi del soldato nelle licenze trascorse a casa: non riescono a starci. Nella vita di prima non riescono più a trovare un posto, uno spazio adatto a loro. Sono costretti a tornare qui (in Iraq) per trovarne uno, nessuna delle persone che ti stanno accanto lo riesce a capire. I soldati scelti: restare soli è la cosa di cui hanno più paura. E Roberto che non si spiegava perché l’esercito portava i giocattoli ai bambini laggiù e poi li bombardava.

L’attesa di Stefania Spataro - a base di ricatti e contrattazioni con un “interprete” iracheno che si fa pagare perché sogna di andarsene dall’Iraq verso l’America e lì ottenere la green card - e pure quella dello spettatore, verranno premiate alla fine: il suo incontro struggente con una donna molto simile a lei, vedova anch’essa, che la invita semplicemente nella sua casa a mangiare riso. Adesso saprebbe chi odiare.

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