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Una Guantanamo per gli australiani: 10 anni di intollerabile silenzio

Nel 2001 il premier australiano John Howard dava inizio alla pratica di delocalizzare i campi di detenzione per immigrati in Papua Nuova Gunea e Nauru. A dieci anni dall'inizio di questo discutibile processo, nulla si sa dei prigioneri, se non qualche accenno alle condizioni disastrose in cui vengono fatti vivere. Scomparsi dalla storia universale.

C'è un limite sottile, quasi invisibile che un Paese non dovrebbe mai superare, e così la sua stampa, quando volutamente ignora il resto del mondo per sdilinquirsi nei propri ameni campanilismi. Questo limite distingue in maniera spietata l'ottusa ignoranza da un gretto senso di indifferenza che cade nel disumano.

C'è voluto un articolo del Guardian - al solito - a svegliare anche il sottoscritto. Già, perché sarà che agli europei la questione della crudeltà contro gli immigrati non è nuova e genera un certo imbarazzo (vedasi il caso di Italia, Malta e Grecia), ma una rapida ricerca sui "manus island camps" sommergerà il colpevolmente ignaro cittadino di informazioni da tutto il mondo. L'equivalente all'italiana - francamente - è invece uno spettacolo alquanto pietoso.

Il complesso carcerario di Guantanamo ha avuto bisogno di molto tempo per essere digerito dall'opinione pubblica americana, gettata in paranoia dal 9/11. E di altrettanto tempo ha avuto bisogno per essere bollato come il crollo storico dell'innocenza occidentale, perlomeno sul lato della delicatissima gestione dei sistemi concentrazionari e della repressione del dissenso. È al Guardian che però va riconosciuta l'opera titanica, e non certo alle autorità politiche, un po' come accaduto con Hannah Arendt e il New Yorker durante il processo di Gerusalemme. Tanto per dimostrare quanto determinante il "quarto potere" dell'informazione. O quanto sia fragile di fronte ad una opinione pubblica stordita dalla sovrapproduzione di stimoli causata dall'avvento dei mass media.

Ad essere posta di fronte alle proprie inquietanti ombre è stavolta l'Australia, che tramite la voce del suo ex primo ministro Malcolm Fraser denuncia una realtà passata praticamente inosservata. Fraser richiede con urgenza una commissione d'inchiesta al fine di fare chiarezza su campi di detenzione per immigrati che non esita a definire dei "gulag". Un termine metodologicamente scorretto - i gulag sovietici rimandavano a campi di lavoro di stampo politico - ma che da l'idea di ciò che l'ex-premier ha potuto vedere. Ma Fraser non si limita a questo. Aggiunge anzi che "ciò che è accaduto a Manus non è nuovo, è andato avanti per mesi e mesi. Il dipartimento ne era a conoscenza, e solo l'averlo reso pubblico ha portato il fatto alla luce". Ma a cosa allude Fraser quando parla di "Manus"?

Manus è un'isola della Papua Nuova Guinea, e assieme a Nauru gode del non invidiabile status di scenario per un esperimento iniziato dal governo Howard. E ha ragione Fraser, la storia è ben datata: l'idea di Howard risale addirittura al 2001. Una "soluzione umana" al problema dei "boat men", disgraziati che tentavano l'attraversata per approdare in Australia dai paesi limitrofi. Era stato poi il premier Kevin Rudd a chiuderli (2007), ma solo perché l'entrata dei migranti potesse passare per l'isola del Natale; poco dopo infatti i campi a Nauru e Manus sono stati riaperti, più orrendamente esotici di prima.

Le isole che tanto magnificamente vengono consigliate da vari tour operator sono infatti per i "villeggianti forzati" un incubo a rischio malaria e febbre dengue: "Le persone vivono in containers senz'aria condizionata, con la ventilazione prodotta dall'assenza di porte. Manus è incredibilmente umida e calda. La malaria e la febbre dengue sono endemiche". Ma il problema non riguarda solo le particolari condizioni climatiche del luogo. Oltre ad essere soggetti a quella che Pamela Curr dell'Asylum Seeker Resource Center definisce come una "detenzione arbitraria - proibita dal diritto internazionale", sarebbero a costante rischio di suicidio, anche per via dei ripetuti casi di stupro perpetrati da altri detenuti. Lasciati a loro stessi, i migranti sono alla disperazione, tra di loro anche bambini, come segnalato da Human Rights Watch. Il tutto mentre il presidente di Papua Nuova Guinea sarebbe in procinto di estendere il permesso per il mantenimento dei campi a Manus.

Le relazioni internazionali - si sa - vanno tutelate. Dunque ormai sembra appurato che la delocalizzazione dei luoghi di detenzione sia pratica standard, anche perché capace di amplificare i ben noti pregi delle istituzioni totali (Goffmann, Bentham): piazzare i detenuti scomodi nel bel mezzo del nulla, dove nessun giornalista può arrivare. Dove guardie e prigionieri sono completamente isolati, portando a distorsioni rilevanti del sistema carcerario, ma anche rilevanti vantaggi politici.

 

Foto: Takver/Flickr

 

 

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