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Tunisia: per il vero cambiamento ci vorrà più di una generazione?

In questi mesi mi è capitato di incontrare molti tunisini che mi dicono che una generazione non basterà perché i valori della democrazia e del senso civico abbiano il sopravvento sulle incrostazioni calcaree che le dittature e la corruzione hanno sedimentato a tutti i livelli di questa società. Provo ad interpretare il senso di queste affermazioni, con tutti i limiti della mia breve esperienza.

Nonostante la vivacità della società civile e il fiorire di associazioni di ogni tipo (dal puro volontariato alla protezione dell’ambiente e dei siti archeologici, a quelle che si preoccupano di fornire strumenti di interpretazione ai cittadini per poter comprendere cosa sia una costituzione, agli avvocati che difendono i diritti dei migranti), mi sembra che queste attività rimangano ancora minoritarie e marginali rispetto a quello che apparirebbe come un ritorno alle vecchie prassi.

Inoltre, sembrano scomparsi i giovani protagonisti delle rivolte di dicembre 2010 e gennaio 2011, oppure vengono strumentalizzati nei loro tentativi di contestare (giustamente) il governo provvisorio: non avvezzi all’organizzazione, alcuni, mentre altri sono infantilmente estremisti, ormai troppo spesso vengono brutalmente caricati dalla polizia, i cui metodi poco sono cambiati (qui, altre info in merito) e hanno dovuto cedere la piazza a gruppi organizzati da partiti che con gli ideali della rivoluzione della dignità e della libertà hanno poco a che spartire.

Anche la situazione securitaria, come del resto dopo ogni rivoluzione, appare allarmante: dalla fine di agosto, mese sacro del Ramadan, nelle regioni in cui è scoppiata la scintilla della rivolta lo scorso inverno, in particolare nei governatorati di Kasserine e di Gafsa, sono ricominciati disordini di vario tipo di cui mi è difficile dare una lettura univoca, perché i mezzi di informazione in Tunisia tuttora sono conformisti e privi di autonomia e di iniziativa. A Metlaoui, per citare un esempio, il tribalismo sembrerebbe tornato violentemente in auge, anche se sicuramente sulle rovine di uno stato assente (prima e dopo la rivoluzione).

Ma bisogna diffidare delle interpretazioni troppo semplicistiche che tenderebbero a etnicizzare, con modalità ben conosciute, alcuni tipi di conflitti. In questa città l’ultima generazione è venuta al mondo senza alcuna speranza se non quella di lavorare nella compagnia dei fosfati che trasporta l’estratto a Sfax e che lascia sul territorio degrado ambientale e una lunga lista di persone decedute a seguito dei gas tossici. Anime irrequiete e tormentate quelle dei ragazzi cresciuti in questa parte del paese, tasche vuote e un grande desiderio di fuga, verso le zone costiere del loro paese, per lavorare nel settore turistico, o verso l’Europa, via Lampedusa.

Da febbraio questa città non ha avuto pace e subito dopo la fine del ramadan, il 5 settembre ci sarebbero stati scontri fra gruppi contrapposti di famiglie locali che hanno provocato la morte di un ragazzo di vent’anni. Di conseguenza ora è in vigore il coprifuoco. Il 1° settembre a Sbeitla una ragazza di diciassette anni è morta, colpita da un colpo sparato dall’esercito che era accorso per sciogliere un assembramento di persone che avrebbero bloccato una strada al fine di compiere saccheggi. Un posto di polizia è stato bruciato assieme a tre autobus della società regionale dei trasporti ed è stato saccheggiato il pronto soccorso dell’ospedale locale.

Avvenimenti simili si sono succeduti nelle prima settimana di settembre in altre località, contemporaneamente a scioperi e contestazioni di più agevole lettura, almeno dal punto vista politico, come la contestazione da parte dei cittadini di Sidi Bouzid dei criteri di assunzione nei cantieri temporanei creati dal governo provvisorio (la corruzione e il clientelismo la fanno ancora da padroni!) o come lo sciopero dei dipendenti dell’aeroporto di Tozeur-Nefta per rivendicare migliori condizioni di lavoro, diritto alla copertura sociale, criteri trasparenti nelle assunzioni e nelle promozioni del personale e aumento dei salari (ricordo di passaggio che in Tunisia i salari sono ridicoli e non sono sufficienti, nella maggior parte dei casi, a vivere decentemente).

A chi giova il caos?
Dunque, grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente proprio perché questi episodi possono essere manipolati ad uso e consumo di qualche forza, neanche troppo occulta, che giocherebbe sul caos e il senso di insicurezza della popolazione per riproporre modelli autoritari e securitari. Potrebbe essere lo stesso governo provvisorio? il 6 settembre il primo ministro Essebsi infatti ha annunciato, in un discorso ufficiale al paese e di fronte alla stampa, il ripristino dello stato di emergenza che verrà applicato alla lettera, senza alcuna deroga, in tutto il paese fino al prossimo novembre. Il tono è apparso subito meno conciliante dei discorsi precedenti: non saranno ammessi sit-in, manifestazioni, né scioperi non autorizzati.

Dopo aver tracciato un quadro sconfortante del caos che regna in Tunisia, Essebsi ha definito il governo provvisorio come unica istanza in grado di difendere la rivoluzione (tuttavia va sottolineato come lo stesso Essebsi avrebbe voluto solo un referendum sulla vecchia Costituzione e che le elezioni per la Costituente sono una conquista delle manifestazioni popolari), ha prospettato lo scioglimento dei sindacati di polizia (a seguito di episodi ambigui concernenti la "destituzione" dei capi della polizia da parte di questi sindacati). Il tono si è inasprito al punto da definire “scimmie” alcuni di questi poliziotti. Anche con la stampa, l’atteggiamento è stato alquanto arrogante, ma questa è purtroppo una sua brutta abitudine. Dunque, il pericolo potrebbe venire dal governo provvisorio che, con la scusa abituale di riportare l’ordine, potrebbe reprimere anche i movimenti di contestazione che, seppure in maniera confusa e disorganizzata, rimproverano a questo governo i suoi ancora attuali legami con l’ancien regime?

Oppure il pericolo viene dalla galassia dei partitini che accolgono, insieme al PDP di Nejib Chebbi, gli ex dell’RCD, partito, ufficialmente disciolto, del dittatore Ben Alì e che se ne sono usciti in questi giorni con la proposta del referendum che limiterebbe le prerogative della Costituente? Azzardo l’ipotesi che che i due pericoli citati siano in realtà uno solo: il ritorno in grande stile dell’RCD, contro cui occorrerebbe l’unione di tutte le forze democratiche e dei giovani che hanno fatto la rivoluzione. Il che purtroppo può favorire l’ascesa del partito islamico Ennahda di cui ho già parlato, che, a causa delle persecuzioni subite ad opera del regimi di Bourghiba e Ben Alì, può essere visto come il nemico numero uno del governo Essebsi, mentre in sordina collabora, specie nelle municipalità, con gli stessi ex-RCD.

La dittatura nella testa
A mio parere, oltre ai suddetti pericoli, altre condizioni peggiorano il quadro sconfortante di quello che appariva solo pochi mesi fa come il paese guida delle rivoluzioni arabe. Innanzitutto, una mentalità maggioritaria che definirei con le parole della mia amica antropologa Annamaria Rivera: “avere la dittatura nella testa”.

Per spiegare cosa intendo, cito un episodio di cui sono stata testimone, descritto dalla stessa Rivera dal manifesto del 4 maggio scorso: "Seduti con amici tunisini a prendere un caffè nella grande sala dell’hotel El Hana International ci è capitato di assistere a una scena esemplare. D’un tratto due agenti privati al servizio dell’albergo, alti e corpulenti, fanno irruzione nella hall trascinando un omino dall’aria dimessa che si agita disperato. Lo strattonano e lo schiaffeggiano senza vergogna davanti alla cinquantina di avventori, in gran parte tunisini di classe media, mentre lui protesta e cerca di liberarsi. I due bruti lo afferrano ancor più strettamente per le ascelle e quasi sollevandolo lo trascinano per la sala verso il corridoio di servizio che conduce all’aperto. Eccetto tre di noi -cerchiamo d’intervenire finché le guardie non ficcano lo sventurato in un gabbiotto esterno-, nessuno nella sala reagisce, anzi quasi tutti fingono di non vedere". 

Ancora esiste la tendenza al maltrattamento, anche del tutto immotivato, dei più deboli e il disprezzo per chi appartiene ad una classe inferiore. Si intuisce facilmente anche soltanto dal modo sgarbato e arrogante che viene utilizzato, ad esempio, dai padroni di casa nei confronti di chiunque esegua dei lavoretti presso di loro. Questa stessa mentalità, purtroppo, si riscontra nella gestione della vita interna dei partiti (a quanto si dice, senza eccezioni!) che vengono governati da segretari "padri padroni" o da famiglie influenti. L’ultimo recentissimo caso riguarda le teste di lista per le elezioni gestite con clientelismo e autoritarismo. Verrebbe da dire che in Tunisia è nata prima “la casta” e poi i partiti.

Il futuro è nelle mani prossime generazioni
Bambini in una scuola di Metlaoui Provengo da un paese cui il senso civico difetta alquanto: la Tunisia non è da meno, ma va anche detto che la dittatura ha favorito questa attitudine in quanto ha privato la maggior parte del paese, ad esclusione di zone residenziali destinate alla alta e media borghesia e di quelle turistiche, di ogni benché minimo servizio che potesse favorire comportamenti civici come il rispetto dell’ambiente e la manutenzione del proprio territorio. Addirittura ha contribuito in casi eclatanti a distruggere il patrimonio naturale come la costa di Hammam Lif nel cui mare per anni l’Onas (Ufficio nazionale per le bonifiche) ha riversato acque reflue provenienti dalle banlieue più ricche. Ora le acque hanno un colore marrone e puzzano di putrido e nessun avviso è stato apposto per impedire ai cittadini di fare il bagno.

Potrei citare moltissime e più gravi situazioni ambientali di questo paese che è bellissimo e fortunatamente conserva (fino a quando?) intere zone dai panorami mozzafiato. Ribadisco comunque che qualcosa sta scalfendo la breccia delle cattive abitudini dei tunisini ed è del tutto naturale che, come è avvenuto nel nostro paese (e nemmeno in maniera compiuta), tutto ciò richiederà un grande cambiamento di mentalità che potrà avvenire soprattutto con enormi investimenti nella formazione delle generazioni future.

E non solo per quanto concerne l’educazione ambientale, ma anche per l’apprendimento delle regole democratiche.

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