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Tre cose sulla morte di Kim Jong Il

Il dittatore nordcoreano Kim Jong Il è morto. Ma la mistica del regime, l’essenza del suo carattere distopico, vuole che la successione del leader non avvenga mai. Che il successore sia una emanazione del predecessore. Come se l’intera catena del comando non si spezzasse mai, fosse un sol uomo. Le foto campeggeranno una accanto all’altra sulle pareti, come già quelle di Kim Il Sung e Kim Jong Il. I riti si ripeteranno sempre uguali, per il padre come per il figlio. Commemorazioni si aggiungeranno a commemorazioni, celebrazioni a celebrazioni, ricorrenze a ricorrenze. Ma, affinché tutto tenga, nulla deve cambiare. Per questo tutti gli occhi sono puntati su Kim Jong Un, apparso per la prima volta accanto al padre lo scorso ottobre. E di cui non si sa nemmeno l’età, figurarsi l’acume politico e strategico.

Non sono certo in grado di dire che accadrà. Se il passaggio di consegne sarà indolore, rapido, inavvertito oppure si creerà lo spazio per un colpo al regime. Per ora la morte di Kim Jong Il segna a mio avviso tre fatti degni di nota. Il primo è che la Corea del Nord ci ricorda come nel 2011, cioè nell’era della comunicazione globale istantanea, sia ancora possibile tenere il decesso di un capo di Stato all’oscuro dei media per 36 ore. Un blackout per molti versi inconcepibile. Il secondo è che, da quanto ho potuto vedere, nell’anno della ‘primavera araba’, degli ‘indignados’ e di Occupy Wall Street, esiste ancora una popolazione che non solo non chiede la destituzione del suo affamatore, ma ne piange sinceramente la scomparsa. Se la scelta di Time di incoronare «il manifestante» come «uomo dell’anno» è azzeccata – e trovo lo sia – significa che le tecniche di manipolazione del consenso di un regime possono essere talmente forti da rendere impermeabili i suoi sudditi allo spirito del tempo.

E qui sta forse il terzo fatto degno di nota: nessuna tecnologia è bastata a fuggire le maglie del più tradizionale dei regimi distopici, quello che meglio si adatta alla straordinaria narrazione che Orwell stese oltre sessant’anni fa, nel 1948. Si dirà che è vero il contrario. Che, per esempio, il libero web è così duramente represso proprio perché portatore sano di dissenso. Senz’altro. Però mi ripeto la domanda che Guy Delisle, nella graphic novel Pyongyang, pone a se stesso osservando i suoi inseparabili accompagnatori assorti in treno, di fronte a lui: «Credono davvero a tutte le stupidaggini che sono costretti a ingoiare?». Se la risposta fosse affermativa – ed è tutt’altro da escludere – allora significherebbe che quel tipo di risposta repressiva (totalitaria, estrema) è tale da costringere l’individuo al rigetto della libertà. Così che mentre il resto delle popolazioni oppresse si riversa in rete e nelle piazze nel suo nome, i nordcoreani piangono la scomparsa del dittatore. O meglio: del dittatore che avevano imparato a desiderare.

(Foto: Guy Delisle – Pyongyang)

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