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Tra salario minimo ed equo compenso, regna l’incoerenza

La remunerazione dignitosa come da articolo 36 della costituzione non c'è per i dipendenti, ci sarebbe per gli autonomi ma la pubblica amministrazione di fatto può derogare per quest'ultimi

 

di Luigi Oliveri

Nel mondo a rovescio nel quale si vive, le contraddizioni in termini sono all’ordine del giorno. Si prenda il caso del minimo salariale. Per molte ragioni, alcune delle quali particolarmente profonde, si registra una forte contrarietà in ambiti istituzionali ed accademici.

D’altra parte in un Paese nel quale la copertura della contrattazione collettiva nazionale ai rapporti di lavoro è circa del 90%, il problema del minimo salariale in termini astratti nemmeno si dovrebbe porre.

LAVORO DIPENDENTE IMPOVERITO

Il fatto è, poi, che in termini concreti la questione non riguarda tanto la copertura dei Ccnl, bensì la concreta gestione dei rapporti di lavoro e il ritmo di sottoscrizione dei Ccnl. Sappiamo che oltre la metà attende da anni i rinnovi e che quando essi giungono, generalmente sono sempre in ritardo sull’incremento del costo della vita e comunque risultano influenzati dal problema della bassa produttività.

In ogni caso, se il mercato del lavoro è fitto di tirocini con indennità forfettarie, di contratti a termine stagionali (specie nei settori turistici e della ristorazione) che inglobano ferie non svolte e Tfr, part time involontari a piene mani e il fenomeno mai messo sotto controllo del nero, non è certo con la copertura dei Ccnl, ma nemmeno di minimi legali, che si risolvono i problemi consistenti soprattutto in “lavoro povero” e “lavoro irregolare”, ancor prima che di compensi piuttosto bassi, che potevano ancora andare bene 10 anni fa, ma ormai sono manifestamente inadeguati.

I Ccnl per funzionare debbono essere rinnovati costantemente e velocemente e il minimo legale essere adeguato a sua volta in modo continuo dal Legislatore. E, comunque, in entrambi i casi occorrerebbe quella funzionalità efficacissima di natura ispettiva della quale assolutamente il sistema risulta privo.

Simmetricamente, mentre si analizzano i problemi del lavoro subordinato mal pagato, senza riuscire ad individuare la chiave per superare l’impasse, quelle tutele astrattamente richieste per il lavoro subordinato sono invece ben (?) disciplinate per i professionisti.

EQUO COMPENSO E COSTITUZIONE

Opera, infatti, per questa altra faccia del mondo del lavoro la legge 49/2023, che all’articolo comma 1, in modo solenne afferma: “Ai fini della presente legge, per equo compenso si intende la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonchè conforme ai compensi previsti” dai vari decreti che fissano minimi tariffari inderogabili per le varie categorie professionali.

Non si può non rilevare quanto appaia curiosa la situazione: per il lavoro subordinato, che certo va connesso a livelli di sostenibilità economica per i datori e alla produttività, ma che comunque non è soggetto alla dinamica propriamente di mercato della domanda e offerta, visto quanto afferma l’articolo 36 della Costituzione, una legge specifica di fissazione di minimi non è possibile: ci si affida ai contratti. E va bene. Ma, simmetricamente, il lavoro professionale, soggetto per sua stessa natura, invece, a logiche propriamente di mercato, viene regolato con una norma sul cosiddetto “equo compenso”, ancora detto equo compenso a minimi tariffari inderogabili, con un intervento del Legislatore piuttosto forte nel “mercato”.

Ovviamente, non guasta per nulla la disciplina dell’equo compenso, proprio perché, come i professionisti sanno perfettamente, esistono rilevanti problemi di deprezzamento del valore delle loro prestazioni in un mercato molto asfittico, nel quale i committenti cercano il più possibile di ritardare il pagamento, o di non pagare per nulla o di ridurre oltre ogni misura gli onorari.

È da precisare che la legge 49/2023 sortisce l’effetto di modificare una lettura tradizionale del problema del compenso dei professionisti. Secondo la Cassazione, infatti, fino a ieri il principio della retribuzione sufficiente posto dall’articolo 36 della Costituzione riguardava esclusivamente il lavoro subordinato e non può essere invocato in tema di compenso per prestazioni lavorative autonome, ancorché rese, con carattere di continuità e coordinazione, nell’ambito di un rapporto di collaborazione (Cassazione civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 4667 del 22 febbraio 2021).

L’articolo 1, comma 1, della legge 49/2023 ha il chiaro scopo, invece, di estendere il principio della retribuzione sufficiente, o “equa” posto dalla Costituzione anche ai professionisti. È evidente, infatti, il richiamo che la legge sull’equo compenso fa al testo dell’articolo 36 della Carta, laddove appunto si riferisce alla proporzione tra retribuzione e qualità e quantità del lavoro. L’articolo 36, comma 1, della Costituzione, infatti, prevede: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La quasi sostanziale identità dei principi posti non pare possa essere messo in dubbio.

Bene che l’articolo 36 della Costituzione, anche a seguito dell’intermediazione della legge 49/2023, estenda i propri effetti al mondo del lavoro professionale. Ma, ciò rende ancor meno chiaro il quadro complessivo del dibattito su minimi salariali per il lavoro subordinato, perché ove c’è un chiaro mercato (lavoro professionale) la legge insiste su minimi posti da autorità amministrative; ove tale chiaro mercato non c’è, l’idea è che tutto sia rimesso alla contrattazione.

LA PA COMMITTENTE DEROGA AL PRINCIPIO

Ma non basta. Perché il mondo all’incontrario nel quale si vive, rende anche le disposizioni sull’equo compenso qualcosa di più simile all’enunciazione di un bell’intento, smentito, però, dal principale tra i committenti di prestazioni professionali: la Pubblica Amministrazione.

L’articolo 2, comma 3, della legge 49/2023 sarebbe, in realtà, piuttosto drastico: “Le disposizioni della presente legge si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175”.

In teoria, non dovrebbero esserci dubbi: le pubbliche amministrazioni che incaricano professionisti, debbono rispettare le norme sull’equo compenso.

Tuttavia, il sistema pubblico è stato sconquassato, da questo punto di vista, da un filone giurisprudenziale del Consiglio di stato alquanto deleterio proprio per la disciplina del compenso dei professionisti ingaggiati dalla PA, secondo il quale non solo le spettanze, in fase di selezione, sarebbero perfettamente ribassabili, ma sarebbe anche lecito e possibile chiedere ed ottenere prestazioni del tutto gratuite. A conferma che valori come “mercato” e “concorrenza” nel nostro Paese sono costantemente oggetto di travisamenti ed applicazioni pelose, corporative o semplicemente sbagliate.

Il Consiglio di stato è il medesimo soggetto che ha redatto il nuovo codice degli appalti, il d.lgs 36/2023. Che, a proposito del trattamento economico per i professionisti a vario titolo ingaggiati per rendere servizi alla PA, sull’equo compenso non spende nemmeno una parola.

Eppure, chi ha scritto il codice, entrato in vigore il primo aprile 2023, non poteva non essere al corrente dell’iter parlamentare della norma sull’equo compenso, entrata in vigore il 20 maggio 2023: le due disposizioni erano “in lavorazione” in parallelo.

Ma, non basta: a difesa del criticabilissimo indirizzo giurisprudenziale favorevole alla gratuità, l’articolo 8 comma 1, del codice dei contratti enuncia il seguente principio:

Nel perseguire le proprie finalità istituzionali le pubbliche amministrazioni sono dotate di autonomia contrattuale e possono concludere qualsiasi contratto, anche gratuito, salvi i divieti espressamente previsti dal codice e da altre disposizioni di legge.

In più, l’articolo 41, comma 15, del codice contiene una disposizione evidentemente volta a permettere ribassi sui compensi e anche su tariffari per le prestazioni professionali connesse ai servizi tecnici: infatti prevede che le pubbliche amministrazioni, in qualità di stazioni appaltanti dei servizi di ingegneria e tecnici (ma, altrettanto può dirsi per qualsiasi altro servizio reso da professionisti) pongono “a base” degli affidamenti i corrispettivi, da determinare in base all’allegato I.13 del codice dei contratti.

Tra l’altro, il codice contiene altre contraddizioni, sempre per altro incidenti sul povero principio di concorrenza. Infatti, per i servizi sotto soglia, al di sotto dei 140.000 euro, si consente l’affidamento diretto, un sistema di negoziazione senza gara e senza confronto, quindi senza una base, nel quale, allora, il professionista riesce a poter far valere le proprie ragioni agevolmente; invece, al di sopra di tale soglia, connessa a progettazioni e prestazioni proporzionalmente più complesse, si ammettono ribassi che possono in teoria portare all’azzeramento dei compensi.

Risultato? Una querelle che si trascina da mesi tra professionisti e loro varie associazioni che rivendicano l’applicazione diretta dell’equo compenso ai contratti con committenza pubblica, e varie autorità pubbliche, dalle Sezioni regionali della Corte dei conti, all’Anac (invero, tra tutti, la più propensa a considerare l’equo compenso vincolante per la PA), ai vari servizi di consulenza dei ministeri, che nicchiano, tergiversano, confondono, tentennano.

Quindi, anche laddove i minimi sono stati fissati, forse dove meno la struttura dell’incontro domanda offerta si attaglia alla determinazione dirigista, in ogni caso larghissimi settori di committenza pubblica possono ancora trovare ragioni per pretendere ribassi e prestazioni gratuite.

Non parliamo, poi, dei costi della manodopera del personale impiegato negli appalti, altro nervo scoperto per l’assenza di una disciplina normativa chiara proprio sui minimi salariali e per le previsioni semplicemente astruse ed inefficienti del codice dei contratti.

In un magma così fluido e informe, non può essere certo il rinvio in calcio d’angolo, leggasi Cnel, la soluzione a questioni ben più strutturali.

Foto di Eluj da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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