Tawada Yôko: lingua in esilio e ibridismo transculturale nippo-europeo
Negli ultimi decenni la mondializzazione, le assimilazioni transculturali, i processi di ibridazione identitaria e linguistica, sono stati al centro di un dibattito che ha visto confrontarsi studiosi di diverso orientamento, dando vita a contrasti sociali e politici tutt'altro che risolti. Quali le prospettive culturali proposte dalla letteratura giapponese contemporanea? Ce ne parla, nei suoi romanzi, un'autrice che dell'ibridismo linguistico ha fatto la sua parola chiave: Tawada Yôko, emblema della letteratura della migrazione postmoderna.
Yôko Tawada 多和田 葉子 nasce a Tôkyô nel 1960 e già dall'adolescenza entra in contatto con l'universo libresco che racconta di viaggi fantastici, dotati di ibridismo e interconnessioni transculturali. La scrittrice decide nel 1979, dopo aver terminato gli studi in letteratura russa all’Università di Waseda, di partire per l’Europa, in Germania, arrivando ad Amburgo con la transiberiana, percorrendo terre mitiche che caratterizzeranno in modo indelebile la sua biografia e la sua scrittura. Si tratta di un itinerario d'iniziazione che l'autrice affronta volontariamente, per curiosità e desiderio di fare nuove esperienze; un viaggio attraverso l’Europa, un Europa che non si sa bene dove inizi e dove finisca. Tawada scrive in lingua giapponese e tedesca, rimettendo in discussione le nozioni di identità, cultura, di appartenenza nazionale e linguistica facendo interagire in maniera inedita lingua di partenza e lingua d’arrivo, in un mélange ibrido e mai netto.
Siamo cresciuti nella nostra lingua madre, e d'un tratto ritroviamo la nostra infanzia, quando cominciamo a vivere in una nuova lingua. E' in quel momento che l'eco delle parole, che servono per veicolare un senso, si ritrovano improvvisamente al centro della scena. La vocale "a" risuona con accenti drammatici, come il primo pianto di un neonato. La "o" risuona invece come una cavità qui conduce verso una grotta che nasconde un tesoro nascosto. Spesso si dice che i kanji sembrano dei disegni, ma anche le lettere dell'alfabeto possono, a loro volta, essere lette come dei disegni: la piccola "q", un girino, la "s", un serpente. (...) D'altra parte, bambini e stranieri condividono il privilegio di sentire la prosemia tra le parole, mentre in una lingua straniera le parole sono raggruppate per categorie semantiche nei meandri del cervello, in modo da non poter vedere il nesso tra termini che non sono legati da una semanticità. Essere esiliato significa venir sradicato dalla propria lingua madre, esser senza difesa alcuna. Siete stati spogliati della vostra lingua, e in un paese che vi protegge dalla repressione politica, non potete comprare il pane se non parlando una lingua straniera. Diventa una situazione corrente, che si sia esiliati o, più semplicemente, appena arrivati in un paese straniero; (...) In una lingua straniera, non è solamente il vocabolario a esser limitato per un esiliato: colui che si è costruito la propria immagine con l'aiuto di conversazioni spirituali, vagamente ironiche, si ritrova nella lingua straniera esattamente come un bambino, che arrossisce avendo espresso i suoi desideri senza prender le debite precauzioni. Colui che utilizza un linguaggio fine e raffinato, costellato di parole difficili, rischia in una lingua straniera di commettere non si sa quale strafalcione grammaticale, diventando cosi lo zimbello di tutti. O ancora, l'autore di un piccolo lapsus può ritrovarsi al centro di un incidente diplomatico, alla luce del sole. (traduzione dal giapponese a cura dell'autore dell'articolo)
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