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Swaziland: il Paese nelle mani della Coca Cola

A 44 anni esatti dall’indipendenza il Paese soggiace a un re dispotico e ai suoi interessi

Le questioni petrolifere le lasciamo ai Paesi arabi (e non solo), quelle minerarie al Kenya. In Swaziland, un piccolo Stato dell’Africa del Sud posto tra Sudafrica e Mozambico e situato ad est dei Monti Drakensberg (o Monti dei draghi), ci sono ben altre priorità. In questo Paese privo di sbocchi sul mare, tra sconfinate piantagioni di canne da zucchero, si può ben dire che manca l’acqua ma non la coca cola. Lo Swaziland è ufficialmente uno Stato indipendente a monarchia costituzionale dal 6 settembre 1968, quando il Paese diventò autonomo dalla Gran Bretagna pur rimanendo all’interno del Commonwealth.

Ma come in tante altre nazioni africane, caratterizzate da forti instabilità politiche ed economiche, occorre interrogarsi su quale sia stato il lascito effettivo della politica coloniale. Anzi, se proprio vogliamo spezzare una lancia in favore del Regno Unito, è giusto rimarcare che sotto il Protettorato britannico (nella prima metà del 900) il Paese si aprì notevolmente agli investimenti stranieri, in primis inglesi e sudafricani, inaugurando una fase di incentivi economici nello sviluppo agricolo: ma quello era lo Swaziland dell’highlander Re Sobhuza II, che governò ininterrottamente dal 1899 al 1982. I tempi sono cambiati.

In questo articolo ho il piacere di riportarvi qualche passo estratto da un puntiglioso reportage realizzato da Peter Kenworthy, dal quale è possibile evincere che il colosso americano è proprietario di intere piantagioni di canne da zucchero, ingrediente fondamentale per produrre il concentrato della bevanda “soft drink” negli stabilimenti collocati nel Paese che hanno la “licenza” di produrre lattine e bottiglie della bevanda. Ma ciò non sarebbe possibile se la Nazione dello Swaziland non fosse governata da un tiranno appartenente all’ultima monarchia assoluta del continente africano. Proprio così; l’unica azione positiva intrapresa per il bene del suo popolo da Re Mswati III e dal governo swazi dal 1986 (anno in cui venne incoronato) a tutt’oggi è stata la Legge “anti-AIDS” nel 2001, che impone la castità femminile fino al ventiquattresimo anno d’età.

Per il resto, le uniche attività politiche ed economiche del sovrano sono finalizzate ai suoi interessi con la multinazionale statunitense, di cui è ufficialmente il primo suddito del Paese. Se preso in considerazione solo superficialmente, il rapporto tra re Mswati e la Coca Cola corporation appare idilliaco e volontaristico, data la presenza di trust e fondazioni, come la Coca Cola Africa Foundation, presieduta dallo stesso monarca, le quali stanziano fondi per l’istruzione e per apparecchiature mediche da donare al governo dello Swaziland.

Ma se Rex est quique cupiet nihil (re è chi nulla desidera), che cosa potrà mai offrire, per converso, la piccola e povera monarchia alla company americana? Senza ombra di dubbio innumerevoli vantaggi, che vanno dall’assenza di sindacati e di un’opposizione politica per arrivare ad una stampa locale per nulla interessata ad approfondire i legami del Paese con la multinazionale e che, anzi, celebra la presenza degli stabilimenti nel Paese. Di libertà politiche non ne parliamo, d’altronde l’ho anche scritto poc’anzi: il re non desidera nulla di tutto ciò. Per comprendere meglio questo aspetto basta riallacciarsi alle stesse parole del Primo Ministro Barnabas Diamini, che un anno fa, in occasione della repressione lanciata dal suo governo per placare alcune manifestazioni di protesta, non si era fatto problemi nel dire pubblicamente che avrebbe fatto torturare i dissidenti.

A tal proposito, quello che farebbe meglio a non desiderare il sovrano è la lunga serie di violazione dei diritti dei lavoratori e di quelli umani più in generale che avvengono sistematicamente nel suo Paese. Peter Kenworthy racconta di un suo viaggio a Vuvulane, piccolo territorio del distretto di Lubombo, che copre quasi tutto lo Swaziland orientale, ricco di piantagioni di canna da zucchero, la cui raccolta è un’attività estremamente faticosa e che causa non pochi incidenti e morti. Qui lavorano centinaia di persone, con salari da fame, compresi tra i 400 e i 550 rand (41-56 euro) al mese, che non riescono nemmeno a garantirsi un pasto tutti i giorni, figurarsi extra costosi come ad esempio dei medicinali.

C’è poi il problema delle confische dei terreni, ad opera delle società che gestiscono gli appezzamenti coltivati a canna da zucchero, la Royal Swaziland Sugar Corporation (Rssc) e la Swaziland Water and Agricoltural Development Enterprise (Swade). Non meno importante è l’enorme volume d’acqua impiegato nel processo produttivo. Per un litro di Coca Cola, occorrono almeno tre litri d’acqua. Il problema della produzione water-intensive è accentuato dal fatto che le piccole riserve idriche sono state di fatto privatizzate. Gli abitanti di Vuvulane hanno raccontato a Kenworthy che è pericoloso anche andare a pescare nella diga vicina: si rischia l’arresto.

Se un tempo a decidere le sorti di questo Paese erano gli scontri tra zulu e swazi, ora il futuro dello Swaziland passa per l’evanescente ed effervescente brand della Coca Cola, che attualmente garantisce il 40% del Pil nazionale; ma se le strutture dei mercati sono oggi rappresentate dalla massima di Eraclito “tutto scorre, niente sta fermo”, non ci sarebbe da sorprendersi se la compagnia in futuro dovesse decidere di lasciare il Paese. In tale presagio negativo, agli schiavi di Vuvulane e Mapatsa non resteranno che le lattine di Cola….naturalmente vuote.

Come in tanti altri Paesi dell’Africa assoggettati alla presenza di multinazionali, anche in Swaziland è praticamente impossibile riuscire ad auspicare una futura svolta democratica. Se prima il Paese dipendeva dalla corona imperiale inglese, ora dipende esclusivamente da una corona nelle mani di un “brand” imperiale: non cambia la forma, cambia solo la sostanza… in peggio, ovviamente. Pertanto, l’unica speranza per il popolo Swazi è che il deus ex machina (o deus ex lattina) re Mswati continui a “fare senza problemi” i propri interessi. Ma il quesito si ripresenta sempre puntualmente: a che cosa è servita la decolonizzazione? Del resto, tanto per chiamare ancora in causa Oscar Wilde, l’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili; il pessimista sa che è vero.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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