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Storie di profughi siriani a Telabbas

(di Lorenzo Trombetta, Ansa).

La dignità non manca, ma della vita di un tempo non hanno più nulla le quattro famiglie di profughi siriani di fatto imprigionate nelle tende erette su un terreno agricolo nel nord del Libano a pochi chilometri dal confine con la Siria.

Le loro storie sono molto simili a quelle degli altri quattro milioni di siriani che, secondo il conteggio fornito nelle ultime ore dall’Onu, negli ultimi quattro anni sono stati costretti a fuggire dal loro Paese dal 2011 segnato da violenze senza precedenti.

“La nostra casa non c’è più. Il nostro quartiere non esiste più. E se proviamo a rientrare in Siria c’è il rischio di essere arrestati, di sparire a un posto di blocco”, è la constatazione che Abu Mariam formula senza far trasparire amarezza mentre si disseta al termine dell’iftar, il pasto di rottura del digiuno giornaliero durante il mese islamico di Ramadan.

Abu Mariam è uno dei capi famiglia del campo di Telabbas, nella regione dell’Akkar, la più povera di tutto il Libano. Le famiglie sono unite da stretti vincoli di sangue e in Siria prima del 2011 abitavano nella stessa strada a Bab Amro, sobborgo di Homs, un tempo terza città siriana.

Come molti altri quartieri di Homs, Bab Amro è stato raso al suolo agli inizi del 2011 dalla risposta militare alla rivolta: scoppiata con manifestazioni per lo più pacifiche, la sollevazione è stata subito repressa nel sangue. E dopo alcuni mesi si è militarizzata, fino a trasformarsi in un conflitto intestino e regionale.

Abu Mariam e gli altri profughi incontrati a Telabbas non vogliono essere associati a nessuna parte in conflitto. “Siamo dovuti scappare in pieno inverno. Con i vestiti che avevamo indosso. La nostra vita di prima non esiste più”, afferma Abu Muhammad, un altro capofamiglia.

Da più di un anno i siriani di Telabbas sono sostenuti da Operazione colomba, un gruppo di volontari italiani membri del corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni 23/mo e che dal 2013 condividono con i profughi ogni momento della vita quotidiana.

Prima del 2011 i maschi adulti del campo lavoravano come imbianchini, operai, artigiani, tassisti. Avevano case e terreni di proprietà, una vita rispettabile e una stabilità economica. Ora celebrano l’iftar al tramonto su una stuoia srotolata a terra. I piatti si lavano in un lavandino improvvisato. Le latrine sono state costruite da una organizzazione umanitaria francese. Le loro tende sono fatte di pali di legno e teloni di plastica.

E non ci sono prospettive per una vita migliore. Le autorità libanesi hanno imposto norme restrittive e discriminatorie nei confronti di oltre un milione di profughi siriani presenti in un Paese piccolo quanto l’Abruzzo, con meno di quattro milioni di abitanti e con una storia di guerre civili e afflussi massicci di profughi palestinesi.

“Non abbiamo i documenti in regola e l’esercito (libanese) ha posti di blocco ovunque nella zona. Rischiamo l’arresto e l’espulsione in Siria”, afferma Abu Mariam. “Non possiamo cercare lavoro, né accompagnare i nostri cari per cure mediche”. In pochi mesi l’Onu ha ridotto il sussidio mensile individuale da 29 a 13 dollari, da spendere in beni alimentari in negozi convenzionati. Siamo imprigionati qui. Ci hanno trasformato in mendicanti”.

Durante Ramadan associazioni caritatevoli portano cibo e aiuti. “Ma durante l’anno non abbiamo molto sostegno”, interviene Abu Muhammad. Per pagare l’affitto del terreno – tremila dollari all’anno – è stata di recente organizzata una colletta, portata a termine anche grazie ai volontari italiani. (Ansa, 10 luglio 2015).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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