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Siria senza pace: Trump rompe con Putin?

L’intervento americano in Siria smentisce nel modo più fragoroso (e pericoloso) tutta la linea di politica estera sbandierata in campagna elettorale da Donald Trump.

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Illustrazione: Gianluca Costantini
http://www.gianlucacostantini.com/
 

Fra l’entusiasmo incomprensibile (oggi più che mai possiamo dirlo) di una curiosa massa di anticlintoniani di estrema destra (e questo si capisce) e di estrema sinistra (e questo si capisce meno) Donald Trump aveva vinto un po’ fortunosamente (e con oltre tre milioni di voti meno di Hillary Clinton) la corsa alla presidenza, dando l’impressione di aver imboccato la classica politica isolazionista dei presidenti repubblicani del passato (solo in tempi recenti i due Bush hanno inaugurato la tendenza repubblicana a intervenire all’estero che è sempre stata caratteristica dei presidenti democratici).

Oggi la smentita più clamorosa. Il precoce (e ridicolo) entusiasmo degli anticlintoniani e antiobamiani globali sembra sbattere contro la realtà: grappoli di missili lanciati sulla base aerea siriana da cui sarebbe partito l’attacco aereo che ha colpito il sobborgo di Idlib sotto controllo dei ribelli antigovernativi. Dopo il bombardamento si è sprigionato il gas letale – probabilmente sarin – che ha ucciso decine di civili.

Esattamente come accadde a Goutha nel 2013 le interpretazioni sono state decise o in un senso (Assad ha attaccato con armi chimiche proibite, versione sposata dal mainstream occidentale quanto da Israele e Turchia) o in senso opposto (i responsabili sono stati gli antigovernativi che avevano un deposito di armi chimiche colpito per errore dall'aviazione governativa, versione di siriani, russi, iraniani & co.).

Prove a sostegno dell’una o dell’altra tesi non ce ne sono, quindi qualsiasi accusa è infondata tanto quanto qualsiasi difesa a priori.

Su Goutha un noto giornalista americano, il premio Pulitzer Seymour Hersh, - in un articolo pubblicato sul sito della London Review of Books (dopo che era stato rifiutato dal New Yorker e dal Washington Post poco convinti del contenuto) - ipotizzò sulla base di presunte fonti di intelligence che si fosse trattato di un razzo artigianale riempito di gas e sparato dai ribelli caduto per errore sulla zona da loro stessi controllata. Un “tiro corto”, insomma.

L’ipotesi fu poi sostenuta anche da un paio di professori del MIT (Massachussetts Institute of Technology) di Boston, ma la ricostruzione di Hersh è stata anche contestata e definita “tutta falsa” da altre fonti dell’intelligence.

In quell’occasione i dubbi furono però presi in considerazione dall’amministrazione Obama che - nonostante avesse tracciato una nettissima “linea rossa” sull’uso di armi chimiche - decise di non intervenire e di accettare la trattativa con Assad aperta grazie alla mediazione russa. La Siria si offrì di distruggere il suo arsenale chimico (che aveva a lungo negato di avere) sotto il controllo dell’ONU che a sua volta certificò la distruzione di quanto dichiarato e consegnato dal governo siriano.

Questo costituisce una delle “prove” che viene oggi sbandierata a sostegno della tesi innocentista che assolve a priori Assad, ma che, ovviamente, non è una prova di niente: nessuno ha o ha mai avuto la certezza che il governo abbia consegnato davvero tutto il suo arsenale chimico. O che non ne abbia prodotto di nuovo.

L’unica certezza è che il gas è stato usato e che, in entrambi i casi, Goutha ieri e Idlib oggi, ha fatto vittime in aree sotto controllo antigovernativo. Il che costituisce comunque, se non una certezza assoluta, quantomeno un sospetto pesante a carico del governo.

Le armi chimiche come quelle nucleari, a differenza di tutte le altri armi - prova ne sia proprio la Siria con il suo mezzo milione di morti - non possono essere usate per convenzione internazionale. Perché incutono timore al di là dei confini, come scrivevo nel 2013 dopo i fatti di Goutha. 

Sta di fatto che il gas di Idlib è destinato a enormi ripercussioni internazionali: il governo israeliano ha colto la palla al balzo e si è detto “sicuro” dell’uso di armi chimiche da parte di Assad, ed è stato "ammorbidito" poi – cosa passata piuttosto sotto silenzio da parte della stampa, ma di enorme portata politica – con il riconoscimento da parte della Russia di Gerusalemme Ovest (cioè la parte che non comprende la Città Vecchia) come capitale dello stato ebraico. Anche se è decisione che non soddisfa le ambizioni israeliane è comunque messaggio significativo che nessun altro stato ha mai fatto prima, nemmeno l’amministrazione Trump che, pure, aveva inserito il progetto di riconoscimento nel suo programma politico.

Putin ha battuto Trump sul tempo, ma Trump sembra aver rotto quella strana atmosfera di amorosi sensi con il presidente russo proprio il giorno prima del lancio di missili sulla base aerea siriana, quando ha estromesso il suo consigliere preferito, Steve Bannon, dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale, organo prettamente tecnico dove un politico come Bannon non era visto affatto di buon occhio. E Bannon costituiva anche il trait d’union con la Russia di Alexandr Dugin, il filosofo della Quarta Teoria Politica, definito “l’ombra di Putin” dal Corriere

L’estromissione di Bannon, cacciato da un giorno all’altro dalla stanza dei bottoni, ma tuttora stratega personale del presidente americano, sembra evidenziare un qualche cedimento alla tradizionale politica repubblicana che da tempo chiedeva di recuperare posizioni di preminenza in Medio Oriente dopo che le titubanze di Barack Obama, restìo a qualsiasi intervento diretto nell’area, avevano spalancato le porte ad una sorta di monopolio politico russo.

Va ipotizzato quindi un mutamento radicale nella politica estera americana, un brusco ritorno alla contrapposizione diretta – e quantomai pericolosa – nell’area più calda del mondo o si tratta solo di una manifestazione di “presenza”, un marcare il territorio come farebbe un gatto, che vuole rimettere in discussione il monopolio di Putin senza per questo rompere la convergenza ideologica stabilita a tavolino dai due strateghi occulti, Bannon-Dugin, nel corso di anni di lavoro dietro le quinte?

La reazione di Putin risponderà a questa domanda che sembra essere la vera questione sul tavolo oggi.

 

 

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