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Siria, in carcere chi chiede dei militari scomparsi

di Zanzuna per SiriaLibano

Non ha usato mezzi termini il presidente americano Barack Obama quando, nell’incontro Nato tenutosi venerdì a Newport in Grande Bretagna, ha parlato dei mezzi per sconfiggere lo Stato islamico. Non ha utilizzato l’espressione “linea rossa”. Né ha insistito sulla “necessità di trovare soluzioni politiche”.

Obama è sembrato deciso e chiaro: “Vi è una ferma convinzione che dobbiamo agire. (…) Lo Stato islamico è una grave minaccia per tutti. E nella Nato c’è una grande convinzione che è l’ora di agire per indebolire e distruggere l’Isis”.

Da Newport 2014 a Bruxelles 2013 è passato più di un anno. Allora, la tavola rotonda della Nato aveva altre priorità, e la situazione siriana presentava realtà diverse: la Nato respinse un “intervento nel conflitto siriano, nonostante il deterioramento della situazione”.

Non sembra essere molto utile mettersi a studiare cosa è accaduto in questo periodo per capire come mai la Nato abbia cambiato idea.

Non è stato per Raqqa, la prima citta uscita dal controllo del regime nel marzo 2013 e capace di gestire la sua vita civile nel primo mese di libertà, prima dell’arrivo dello Stato Islamico. Non è stato per il massacro della Ghuta con i gas nell’agosto 2013.

Forse il caos creato dallo Stato islamico in Iraq è diverso da quello creato in Siria. Forse solo adesso “le minoranze del mosaico religoso sono a rischio”. Forse è stato a causa della morte dei due giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, barbaramente uccisi dallo Stato Islamico. In questo modo il video game funziona e convince il mondo a unirsi per combattere contro i terroristi.

Anwar al Bunni, avvocato siriano da decenni in prima fila per la difesa dei diritti umani, scrive sulla sua pagina Facebook: “Non so perché il mondo vibra di panico quando centinaia di teste vengono tagliate dalla spada, ma non vibra quando decine di migliaia di persone vengono uccise dai barili esplosivi lanciati dagli aerei, o dai missili, o dalle armi chimiche, o sotto tortura (…) La risposta ha a che fare con l’identità dell’assassino? O forse con l’identità della vittima? Se l’assassino indossa l’abito laico gli è permesso forse di uccidere chi vuole e nel modo in cui lui vuole? Ma se il boia indossa l’abito religioso gli è vietato anche di urlare?”.

Due facce della stessa medaglia. Una uccide il popolo con il coltello. L’altra col veleno. Una uccide e dice “sto uccidendo e sono così”. L’altra consegna alla prima il popolo che deve essere ucciso.

Il presidente siriano Bashar al Asad ha imparato dall’esperienza americana: creare il nemico terrorista serve per diventare il baluardo contro l’integralismo da combattere con tutti i mezzi, leciti o meno. A dire il vero, Asad figlio ha imparato bene dal padre.

Per fare funzionare questo gioco chiede ai suoi militari di ritirarsi da alcune aree, lasciando scoperti molti luoghi del fronte contro lo Stato islamico. Molti suoi soldati sono così lasciati impotenti da soli ad affrontare l’attacco della marea nera dei jihadisti. Solo allora, servirà l’intervento salvifico delle truppe di Asad.

Nadin, un’attivista siriana, racconta la sua storia nelle località attorno a Tartus.: “Non ci sono più uomini in quei nei villagi alawiti. Questi villaggi sono ormai famosi perché le donne che vi abitano non hanno più un uomo al loro fianco. Gli uomini che tornano, tornano morti”.

#Wainun (“Dove sono?”) è una campagna Web gestita da attivisti siriani per chiedere che sia fatta luce sulle sorti degli scomparsi come Padre Paolo, Razan Zaytuneh, Samar Saleh, Mazen Darwish, Yehya Sharbaji e molti altri.

Su modello di questa campagna, i siriani fedeli ad Asad, hanno cerato una pagina Facebook in cui campeggia la foto del raìs e chiamata: “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad” in riferimento alla battaglia avvenuta a fine agosto nella regione settentrionale di Raqqa tra lealisti e jihadisti.

Di solito questa pagina incoraggiava i soldati a combattere nel nome di Asad. Soprattutto quelli  rimasti nella base militare area di Tabqa ad affrontare lo Stato islamico. Ma quelle “aquile” sono poi state abbandonate. Senza nessun sostegno di Asad.

Ecco perché i lealisti, autori de “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad”, hanno creato nella stessa pagina una sezione informativa chiamata #Wainun dove raccolgono notizie sulla sorte dei militari dell’esercito regolare scomparsi.

L’episodio di Tabqa non è stato certo l’unico. Ma è stato il più recente e quello più drammatico. Centinaia di soldati sono stati uccisi dai jihadisti. Il regime non solo non li ha difesi, non ha nemmeno parlato della loro morte nei canali televisivi governativi che hanno invece proseguito a trasmettere secondo il palinsesto regolare, con musichette e serie televisive.

I toni espressi nella pagina Web #Wainun dei lealisti mettono a nudo la rabbia e la delusione di molti sostenitori del regime: “Dove sono i nostri figli?!”, hanno chiesto in molti. Come se questi seguaci di Asad si fossero accorti solo adesso del gioco e del fatto che il regime è capace di impegnare ogni energia per liberare dei rapiti russi o iraniani, ma è capace di lasciare al loro destino tragico centinaia di soldati semplici. Come carne da macello e niente più.

La pagina lealista #Wainun ha così superato la “linea rossa” indicata dal regime e dai suoi servizi di controllo e repressione. Ma non comprendete male: non è che gli agenti dei servizi sono andati a difendere i soldati di Asad al fronte contro i jihadisti. No… gli agenti sono andati ad arrestare l’amministratore della pagina Facebook e l’ideatore della campagna, Mudar Khaddur.

Khaddur è sempre stato un lealista. Poi ha perso uno dei suoi fratelli nella battaglia dell’aereoporto. E ha creato questa pagina per chiedere ad Asad e al ministro della difesa, Fahd al Frej, i motivi per cui i generali sono scappati, lasciando i soldati in mano allo Stato islamico, che prima li ha insultati e poi uccisi. Khaddur ha trascorso giorni e giorni per raccogliere informazioni sui soldati scomparsi e per dare la notizia alle loro famiglie.

Questa partita a scacchi il regime la vuole giocare fino all’ultimo. Ha capito di essere il re e di poter giocare col sangue. Non pensa di esser sconfitto solo perché fa la parte del cattivo. Non crede alle favole, dove i cattivi alla fine vengono sconfitti. A differenza di noi, il regime di Asad sa che non è “il protettore del Paese” e che non è “il protettore delle minoranze”. Lo sa bene e sorride di fronte ai proclami di Newport e Bruxelles, ai negoziati di Ginevra-2 e Ginevra-1, alle riunioni degli Amici della Siria e degli Amici del regime. Perché in questa partita a scacchi, nessuno vuole gridare “Scacco matto!”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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