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Siria. Quel fumo su Aleppo rende il nero un’altra cosa

Pagine nere, presente nero, prospettive nere, bandiere nere, figure nere: un nero che affossa i dialoghi, squarcia i colori, annega i sogni. Da troppo tempo, ormai, il nero è diventato esclusivo appannaggio di chi sparge terrore. Di chiunque terrorizzi, di qualunque colore sia.

di Claudia Avolio, per SiriaLibano

In questi giorni, però, qualcosa è cambiato sul piano simbolico. “Nella zona di Aleppo controllata dai ribelli, gli abitanti hanno incendiato dei copertoni, ricoprendo il cielo sulla città e le campagne circostanti di volute nere di fumo (…) nel tentativo di diminuire la visibilità agli aerei da guerra del regime e della Russia”, così descrive il fenomeno il quotidiano al Araby al Jadid.

Mansour Hussein, attivista di Aleppo, ha raccontato allo stesso quotidiano: “L’idea di bruciare copertoni è partita da un gruppo di bambini che ha agito in modo spontaneo, poi si è diffusa nel resto di Aleppo est e nelle campagne”. Anna Nolan, project director di The Syria Campaign, scriveva sul suo profilo Facebook che lo sforzo degli abitanti in tal senso mirava a proteggere “ospedali, scuole e case”. Un’attivista aleppina, Marcell Shehwaro, il 31 luglio ha condiviso sul suo profilo Facebook la foto di un copertone che brucia scrivendo come didascalia: “No fly zone”.

Copertoni neri, fumo nero. Un gesto come quello degli abitanti di Aleppo toglie terreno semantico al terrore. Grazie a quei copertoni bruciati il nero, d’ora in poi, assurge a nuovo simbolo di creatività, resilienza e speranza. Di solito il colore nero nei disegni viene usato per segnare i contorni, i confini. Il nero di Aleppo segna – ancora una volta – il confine tra la vita che vuole esistere a tutti i costi e chi cerca di spezzarla con ogni mezzo.

E questa vita che vuole esistere chiede perfino scusa al resto del mondo – quel mondo che l’ha abbandonata a se stessa – perché “di sicuro [bruciare copertoni] avrà conseguenze sull’ambiente, inquinando”. “Ci dispiace, ma li stiamo bruciando per fermare i crimini della Russia e del regime siriano, così facendo impediamo ai veivoli di attaccarci. Siamo davvero dispiaciuti, perdonateci. Ma tutti voi avete voltato le spalle al popolo siriano, avete disatteso le nostre speranze di creare una no fly zone, e questo ci ha obbligati a fare così”. Il video è stato condiviso il primo agosto dal giornalista di origini siriane Rami Jarrah sul suo profilo Facebook.

Sono tanti gli esempi di solidarietà in chiave artistica diffusi online. C’è l’omaggio di Hani Abbas, il vignettista siro-palestinese di Yarmuk, in cui un copertone che brucia con su scritto “Aleppo” serra un aereo da guerra con bandierine del regime siriano e della Russia, impedendogli di volare.

C’è Mahmud Salameh, anche lui siro-palestinese, per il quale i palazzi prendono la forma di un dito medio che si contrappone a degli aerei pronti a colpire. E poi lui stesso si fa fotografare con un copertone da cui sbuca la sua faccia, scrivendo “Made in Aleppo”. C’è il disegno dell’artista e illustratrice libanese Jana Trabulsi in cui da un copertone nero si spandono nuvole sempre più ampie. Sotto, la scritta “Aleppo”.

Ci sono due murales che ritraggono la stessa immagine: nella griglia del famoso gioco “tris” (o “filetto”) aerei prendono il posto delle “x”, copertoni quello dei cerchietti. A realizzare il tris vincente sono proprio i copertoni, e da qui la scritta Game Over. Uno dei due murales è stato realizzato a Darayya, sobborgo sudoccidentale di Damasco, purtroppo non so da chi; l’altro nella zona a sud della capitale per opera del Movimento Rivoluzionario che fa parte del collettivo Rabi’i Thawra. Anch’io ho sentito il bisogno di realizzare un piccolo disegno: un bambino di Aleppo in abiti estivi “indossa” un copertone nero. Sopra, la scritta “salvagente” in italiano, inglese ed arabo. L’artista siriana Diala Brisly ha commentato di recente con una battuta: “Quanto sta diventando fotogenico lo pneumatico in questi giorni!”.

In giorni tanto difficili per la gente di Aleppo si sta segnando un passaggio fondamentale anche per il nostro immaginario, se lo sappiamo cogliere. Mai avrei creduto che una spinta nuova verso tutto quanto è vivo mi sarebbe giunta da un colore in genere associato alla morte, ai tunnel senza uscita. Personalmente ho avuto col nero un rapporto conflittuale.

Non lo usavo mai nei miei disegni di Yarmuk. Sempre, anzi, ci tenevo a ridisegnare foto in cui i miei amici erano vestiti di nero. “Ti coloro un po’ io, ci metto tutti i colori che ho!”, dicevo. Quando dal campo arrivava la notizia che qualcuno era morto, lo disegnavo colorandolo con cocciutaggine. Proprio per oppormi al nero che aveva forzato la porta dei sogni di quelle persone, serrandosela dietro per sempre.

Poi ho provato una tristezza talmente profonda e inascoltata che quello stesso nero sono stata io a cercarlo, a volerlo vedere nei miei disegni. Riempivo le forme sul foglio col pennarello nero, ci ripassavo sopra due, tre volte. Provavo d’un tratto sollievo. Sì, pensavo, questo nero copre tutto, riempie, porta via questo vuoto che mi hanno lasciato. Dà risalto allo sguardo, i tratti appaiono tutti subito più definiti e profondi. Nel nero c’è tutto, non vi dimora solo il dolore. Lo splendore di quanto vi è sepolto può riaffiorare in qualsiasi momento, e brillare.

“Claudia, se non fosse per il nero, non riusciresti a vedere il bianco”, mi ha detto in quegli stessi giorni l’artista siro-palestinese di Yarmuk, Anas Salameh. E io, che bianca di carnagione lo sono fino allo svelarsi blu delle vene, ho imparato a usare il nero per risaltare invece che sprofondare.

Sono grata alla Siria per mille ragioni, la prima è per aver pianto con me – sì, lei con me, non il contrario, è lei che ha aiutato me per prima, anche se da lontano. Ma oggi davanti a questa nuova storia che ha per protagonista un fumo nero di speranza ho provato una gratitudine, un senso di condivisione, una forza interiore che davvero non mi aspettavo (più).

Ti ringrazio, Aleppo, perché il nero non vuol dire più solo ciò che significava fino a qualche giorno fa. Ce l’hai fatta, hai cambiato la definizione di un termine del nostro dizionario del sentire, aggiungendovi qualcosa di essenziale. Nero fumo d’Aleppo, un colore duro da accettare, perché non è possibile che la gente sia costretta a dover scegliere tra intossicarsi o morire uccisa dagli attacchi. Ma è un colore che diventa allo stesso tempo esempio per il mondo. Perfino il fumo può diventare mano sugli occhi, garza sulle ferite, manto sulle spalle – ci dice Aleppo col suo gesto. Esiste un nero in grado di sottrarci ai diffusori di buio.

Di seguito, tutte le immagini citate nell’articolo

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Commenti all'articolo

  • Di antonello (---.---.---.132) 6 agosto 2016 11:09

    l’idea che quei bambini siano costretti dai tagliagole dell’ISIS a fare quello che fanno no, eh? Tutto spontaneo, in una città "governata" da gente che taglia la testa ai bambini per divertimento!

  • Di marina (---.---.---.228) 8 agosto 2016 12:39

    Morire intossicati piuttosto che bombardati. Per mano propria o per mano altrui. Ed il colto Occidente plaude a questo scempio, incapace di far altro.

    Siamo ancora al tempo dei romani, in cui le persone, per rispetto della propria esistenza, si toglievano la vita pur di non condurla alle condizioni dettate da legislatori tiranni?

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