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 Home page > Tribuna Libera > Sindacati, chi è causa del suo male pianga se stesso

Sindacati, chi è causa del suo male pianga se stesso

La vittoria del sì a Mirafiori denota che il cattivo capitalismo italiano sta centrando il suo obiettivo, ossia ridurre il potere delle classi deboli, impoverendole, distruggendone diritti e conquiste, con l’avallo di una classe politica collusa, ignorante e spregiudicata. Tuttavia i sindacati, proni alle politiche dei gruppi politici dai quali sono sempre stati mossi, avrebbero potuto prevedere l’esito distruttivo delle politiche delle Multinazionali già alcuni anni fa. Non facendo ciò hanno solamente decretato il loro incosciente declino, a scapito dei più esposti.
 

Correva l’anno 1997, era stata un’afosa e maledettamente calda giornata di luglio. Alla sera la temperatura era sensibilmente scesa anche nello stabilimento, facendo tirare agli operai del secondo turno un sospiro di sollievo. Durante il turno c’era stata un’assemblea sindacale della RSU. I sindacati avevano dato notizia che presto l’azienda, grazie agli accordi presi, avrebbe presto provveduto ad avvalersi dell’uso di lavoratori interinali per l’emergenze produttive. L’assemblea si era risolta in un’invettiva generale, i delegati sindacali erano stati tutti sistematicamente insultati; numerosi operai avevano strappato la tessera dei rispettivi sindacati di appartenenza.

Carlo era delegato Fiom-Cgil dal 1995, dall’anno in cui gli era stato rinnovato il contratto a tempo indeterminato. Quella sera, oltre ai suoi colleghi delle linee, anche lui non l’aveva proprio mandata giù. Carlo era indeciso se rassegnare le dimissioni, giacché sentiva che tutte le sue premesse iniziali, riguardo alla sua entrata in Fiom, erano state tutte disattese, se non addirittura tradite.

 E poi, la cosa più difficile era quella di spiegare in continuazione a tutti i colleghi, come mai e per quale ragione i sindacati avevano in siffatto modo acconsentito così supinamente a tali richieste. Era lapalissiano per tutti che le politiche sindacali dovevano sottostare - come d'altronde era sempre stato - per chiari motivi di mantenimento del consenso, alle direttive del primo governo storico della sinistra italiana che aveva varato da poco il famigerato pacchetto Treu.

Cionondimeno, Carlo, studente meridionale trapiantato al Nord, metalmeccanico e studente in Economia, non poteva fare a meno di pensare ad una teoria che in pochi a quel tempo davano del credito. Soprattutto gli economisti più blasonati non ne parlavano affatto, ma questo, secondo lui, non significava certamente che si sarebbe presto rivelata tristemente vera.

Carlo non faceva mistero ai suoi colleghi, anche nella Fiom, che dietro queste trasformazioni del Diritto del Lavoro, non c’era solo la volontà di flessibilizzare il lavoro, ma anche la necessità di vari gruppi multinazionali operanti in Europa di liberarsi da leggi sempre più vincolanti per la futura e impellente conquista di nuovi mercati.

Carlo era convinto che le Multinazionali mondiali stessero facendo pressioni da anni su tutti i gruppi politici, anche con sovvenzioni e laute prebende, per iniziare e diffondere politiche di svincolamento da situazioni lavorative legate troppo al fattore umano, per emigrare verso nazioni più attraenti per quanto riguardava il costo della mano d’opera e l’accessibilità a nuovi mercati. Perciò avevano bisogno di svincolarsi dalle leggi delle nazioni in cui producevano e che spesso le avevano viste nascere e - soprattutto - arricchirsi per attuare da lì a poco una politica di abbassamento del livello di vita delle società occidentali, per permettere loro di produrre a bassi costi, ma anche soprattutto di andarsene da mercati saturi con manodopera ormai divenuta troppo decurtativa di guadagni e "infarcita di diritti ingombranti". In poche parole: sfrutta, satura e scappa!

Come dimostra il caso Fiat, un tempo non era così, giacché poteva produrre solo qui, poiché in altre nazioni del terzo mondo era già tanto se non si andava a caccia con la clava, figuriamoci se gli operai assunti in loco avessero avuto il know-how per produrre automobili o tantomeno la possibilità di comprarle. Andare negli USA poi, neanche a pensarci. Chi comprava le automobili della marca torinese allora erano anche quasi tutti gli italiani medi, con incentivi e sgravi per l’azienda prontamente varati dallo Stato quando veniva tirata fuori l’ennesima scatoletta di turno. Poi, quando il mercato era saturo, provvedevano i contribuenti italiani a rimpinzare le casse dell’azienda per elargire la cassa integrazione agli operai Fiat. Era bello a quel tempo produrre in Italia, vero Sergio?

Carlo si dimise pochi giorni dopo. Era entrato nel sindacato, rinunciando alla carriera in azienda da impiegato, perché credeva di poter dare il suo contributo nel servire la classe operaia alla quale fieramente apparteneva, lo aveva fatto finché aveva potuto, ma ora era arrivato il momento di defilarsi, non c’era più ragione di rimanere in Fiom. Carlo poi si è laureato ed è ora un precario della scuola. Nella sua ex azienda la maggioranza dei suoi colleghi sono passati ai Cobas.

La Fiom avrebbe dovuto allora ascoltare le tante fievoli voci che si levavano dal basso della piramide; nelle assemblee che le RSU allora indicevano gli operai erano sempre pronti a contestare quelle scelte dettate da un certo potere politico di sinistra, che oggi, appare chiaro che sinistra non era più, ed ora e poco più di nulla.

Sorgono ora alcune domande su quello che si potrebbe fare, ma che non si fa: perché non andare verso il capitalismo sociale di paesi davvero evoluti come la Germania, dove gli operai sono azionisti dell’azienda per la quale lavorano?

Forse perché il capitalismo italiano fa parte di quel cattivo capitalismo accentratore di capitali che aspira a tenere il malloppo tutto per sé, con una massa di schiavi utenti, che lavora per esso e compra fino ad esaurimento il suo prodotto finito, per poi, una volta sfruttati, buttarli via, proprio come sta avvenendo con i lavoratori dell’industria pesante italiana.

E relativamente all’industria dell’auto: perché si persiste nel continuare a produrre modelli iperinquinanti, ma anche grandi consumatori di carburante, senza neanche accennare alla produzione italiana di modelli ibridi?

Forse perché bisogna saturare il mercato mondiale così come è stato saturato il mercato italiano di auto che consumano idrocarburi a bizzeffe per non deludere le grandi multinazionali sorelle produttrici di idrocarburi. Altre grandi lobbies, altre squallide storie! 

Infine, la vittoria del sì impedirà a Fiat e ad altre aziende di andarsene o ne ha solo procrastinato la definitiva fuga? 

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