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Sessanta anni fa a Poznan si manifesta la crisi del sistema sovietico

Molte delle vicende che hanno segnato il lungo declino dell’URSS e del sistema sorto a sua immagine e somiglianza dopo la Seconda Guerra mondiale sono non solo ignorate dalle giovani generazioni ma sono state dimenticate e rimosse da molti che pure le conobbero. Certo sono raramente ricordate dagli stessi media mainstream che al massimo ogni tanto rievocano con toni granguignoleschi qualche vicenda, non certo per facilitarne la comprensione.

Pubblicando la traduzione di un breve articolo sulla rivoluzione ungherese dell’ottobre-novembre 1956, sintesi di un lavoro più ampio fatto da un docente che non ha paura di andare controcorrente nell’Ungheria di Victor Orban (Ungheria 1956: la destalinizzazione apre la via al movimento popolare), mi sono reso conto che di riflesso (per la apparente minore necessità di polemizzare con versioni scorrette) anche il mio sito negli ultimi tempi ha diradato un po’ gli articoli di ricostruzione storica. Cercherò di riparare tenendo conto anche delle ricorrenze degli avvenimenti principali di quel “terribile 1956” (sugli aspetti più generali intanto rinvio a qualche scritto più ampio rimasto seminascosto nella parte meno recente del sito, come La rivoluzione ungherese - 1956, o Polonia e Ungheria '56).

Comincio con una breve ricostruzione della prima manifestazione della crisi, la rivolta operaia di Poznan di cui tra pochi giorni ricade l’anniversario. Formalmente non è stata esattamente la prima, ma fu quella che provocò la prima differenziazione visibile nel movimento comunista e in particolare nel PCI, con la presa di posizione di Giuseppe Di Vittorio.

Tre anni prima, il 16 giugno del 1953 c’era stato lo sciopero generale di Berlino Est, contro insopportabili ritmi di lavoro, che era stato non solo duramente represso, ma anche bollato come “rivolta fascista”. Pochissimi compagni anche nei decenni successivi hanno voluto modificare il loro giudizio, che spesso era imbevuto di quei pregiudizi sciovinisti e razzisti antitedeschi che avevano caratterizzato la “Grande Guerra Patriottica” ed erano stati riproposti nei vari partiti comunisti. Solo diversi anni dopo si ebbe notizia di altre manifestazioni della stessa crisi che in quello stesso mese dilagarono con rivolte nei Gulag e anche con scioperi in diverse città russe e cecoslovacche tra cui Pilsen.

La rivolta di Poznan in ogni caso non poté essere nascosta per una ragione particolare: in città erano presenti decine di giornalisti di vari paesi, e molti uomini d’affari occidentali per la Fiera industriale, una delle più importanti dell’Europa centro orientale. Le versioni negazioniste hanno insistito su questa coincidenza per avvalorare la tesi che la manifestazione fosse manovrata dalla CIA, ma diversi testimoni, tra cui uno scrittore polacco, Wiktor Woroszylski, e il corrispondente de “l’Unità” Vito Sansone avevano confermato che l’agitazione alla ZISPO (15.000 operai, addetti alla produzione di locomotive, vagoni e carri armati) era in corso da mesi, ed era esplosa il 12 maggio in un’assemblea che aveva denunciato l’aumento della produttività mentre i salari reali si riducevano. Il 25 maggio i lavoratori avevano inviato una delegazione a Varsavia.

Il ritardo nel rientro della delegazione (che in realtà aveva ottenuto benevolo ascolto e qualche promessa, grazie ai primi sintomi del malessere dello stesso gruppo dirigente) fu attribuito invece dalla maggior parte degli operai a un possibile arresto, e innescò lo sciopero e un corteo che sotto i colpi della milizia si divise in vari tronconi, uno dei quali si recò a una vicina prigione liberando tutti i detenuti. La manifestazione, iniziata al canto dell’Internazionale e con alla testa le bandiere rosse delle cellule di fabbrica del partito, fu repressa a cannonate dai carri armati comandati dal ministro della difesa Rokossovski (che era stato per decenni cittadino sovietico), che fecero una cinquantina di morti e 300 feriti. Ma presto la quasi totalità delle centinaia di arrestati furono rilasciati, tranne due che avevano ucciso un funzionario della polizia politica. Il potere vacillava e si divideva.

L’antefatto si era svolto a Mosca, durante il XX Congresso del PCUS. Poco prima di quella riunione, in cui fu denunciato il “culto della personalità” e Chrusciov sferrò il famoso attacco a Stalin che con perfetto stile staliniano attribuiva al solo dittatore georgiano le responsabilità collettive del gruppo dirigente, era stato affrontato un problema apparentemente minore: la revisione della condanna del partito comunista polacco che era stato sciolto nel 1938 presentandolo come asservito all’imperialismo. Una dichiarazione dei partiti comunisti dell’Unione Sovietica, d’Italia, Bulgaria, Finlandia e Polonia dichiarava false le prove che avevano portato allo scioglimento del partito e allo sterminio del suo gruppo dirigente. Tutto deciso, come nel 1938, a porte chiusissime: i polacchi appresero improvvisamente la notizia della “riabilitazione” (e della stessa condanna, su cui per quasi venti anni era stato steso un velo di silenzio), e furono informati che i responsabili “erano un gruppo di sabotatori e provocatori il cui ruolo è stato portato alla luce solo quando Beria è stato smascherato”.

La dichiarazione era stata pubblicata dal “Trybuna Ludu” il 17 febbraio, una settimana prima del famoso rapporto segreto, ed era accompagnata dalle foto di tutti i dirigenti sterminati, compresi i “tre W”, Warski, Walecki e Wera Kostrzewa, che erano stati per 18 anni delle “non persone”.

Il disorientamento del gruppo dirigente del POUP (partito operaio unificato polacco, nome assunto nel dopoguerra dopo l’unificazione forzata con i resti del partito socialista) era stato aggravato dalla morte a Mosca (subito dopo la chiusura del XX congresso) di Boleslaw Bierut, che era segretario generale dal 1948. La discussione sulla nomina del nuovo segretario provocò lacerazioni impreviste che paralizzarono il partito per mesi, e che si aggravarono dopo la rivolta di Poznan e la comparsa di Consigli operai in molte fabbriche importanti. Il tentativo sovietico di destituire il segretario Edward Ochab che era stato imposto il 21 marzo dallo stesso Chrusciov, ma che nel nuovo clima si era rivelato troppo autonomo da Mosca, era fallito perché neanche un membro del Politbjuro polacco aveva accettato di prestarsi alla manovra. Riparleremo prossimamente di quell’episodio ricostruendo il ritorno in scena di Gomulka.

Ma ora volevo tornare a quanto anticipato sopra: la rivolta operaia di Poznan aveva fatto riflettere non solo parte del gruppo dirigente polacco, ma anche Giuseppe Di Vittorio. È abbastanza noto l’atteggiamento di esplicita critica all’intervento militare sovietico in Ungheria (Di Vittorio aderì e difese la bozza preparata da Giacomo Brodolini, suscitando una violenta reazione di Togliatti), ma raramente viene ricordato che già il 2 luglio aveva scritto al corrispondente dell’Unità Vito Sansone apprezzando la sua coraggiosa denuncia delle condizioni dei lavoratori di Poznan, e aveva per giunto ribadito i suoi dubbi rilasciando una dichiarazione all’Unità che gli era stata richiesta per rettificare la sua linea; ma il testo, se iniziava ammettendo che dietro gli assalti agli edifici pubblici potevano esserci dei provocatori, poi proseguiva osservando che “se non ci fosse stato il malcontento diffuso e profondo della massa degli operai, i provocatori sarebbero stati facilmente isolati”. Per questo, sosteneva, “la prima questione che sorge” è quella di chiedersi “perché esiste un così profondo malcontento nella classe operaia di Poznan”. Togliatti non polemizzò pubblicamente allora con Di Vittorio, ma rincarò la dose pubblicando un articolo su Poznan dal titolo inequivocabile: “La presenza del nemico”. E nella drammatica riunione della Direzione del PCI del 30 ottobre 1956 convocata per discutere “Sulla situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria” aveva attaccato Di Vittorio anche sulla dichiarazione di giugno, sostenendo che non si trattava solo di atteggiamenti legati alla necessità di salvare l’unità della CGIL, ma di convinzioni sbagliate.

In realtà aveva ragione Di Vittorio e non Togliatti. Un atteggiamento diverso di un grande partito comunista stimato in tutto il movimento operaio mondiale avrebbe potuto contribuire se non ad evitare, almeno a ridurre gli atteggiamenti che hanno chiuso gli occhi dei dirigenti polacchi, ungheresi, tedeschi di fronte ai successivi segnali della crisi e in particolare allo scollamento con la loro base sociale. (a.m.)

Proposte di lettura:

Adriano Guerra, Bruno Trentin, Di Vittorio e l’ombra di Stalin, Ediesse, Roma, 1997.

Antonio Carioti, Di Vittorio, il Mulino, Bologna, 2004

Marcello Flores, 1956, il Mulino, Bologna, 1996

Carlo Ghezzi (a cura di), Giuseppe Di Vittorio e i fatti d’Ungheria del 1956, , Ediesse, Roma, 2007.

Maria Luisa Righi (a cura di), Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, Editori Riuniti, Roma, 1956

Foto: Wikipedia

 

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