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 Home page > Attualità > Politica > Riordino del pubblico impiego... o no?

Riordino del pubblico impiego... o no?

Parliamo della legge delega sul riordino del pubblico impiego. Si tratta di un provvedimento, aspramente criticato, stenuamente osteggiato, non condiviso, ma sicuramente destinato a chiudere l’inglorioso capitolo della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego. Una legge che ridimensiona lo strapotere dei sindacati e che tenta di avviare, almeno nelle intenzioni dell’esecutivo, una nuova stagione della pubblica amministrazione. Del resto, bisogna prenderne atto, la "Cura-Brunetta" ha bene o male dimezzato l’assenteismo, ha - più male che bene (aumenti ridicoli rispetto al costo reale della vita e all’effetto euro) - rinnovato, ma pur sempre rinnovato i contratti di lavoro, e ha messo in essere le basi di una riforma strategica affidata all’attuazione dei decreti delegati. In tutto questo, affermare che la linea di condotta del Pd sia stata "ambigua" non è affatto un atto di polemica politica ma una testimonianza di verità. Cominciamo dalla prima lettura al Senato. Il ddl-Brunetta viene "collegato" in Commissione Lavoro con il progetto presentato da Pietro Ichino. Ne esce un testo che arriva in Aula, dove vengono accolti altri emendamenti dell’opposizione Pd, tanto che il gruppo vota a favore di alcuni importanti articoli e si astiene sull’intero provvedimento.



Per settimane (basta consultare il sito) l’insigne giurista di sinistra "lascia intendere" che quel testo è più figlio suo che di Brunetta e che gran parte del merito dovrebbe essere attribuito a lui. Il testo del Senato arriva, dunque, alla Camera. La maggioranza cerca di "far presto" per due motivi: primo, perché non vuole dissipare l’eredità politica del voto del Senato; secondo, perché avverte che alla Camera il Pd è più sensibile alle istanze della Cgil che a quelle di Ichino. Alla fine però vince l’orientamento di accettare delle modifiche che non alterino il quadro complessivo scaturito dal Senato. Così accade, al punto che l’opposizione, nel voto sugli emendamenti, riesce persino a mandare in minoranza per due volte il Governo. Logica politica vorrebbe che almeno fosse confermato il voto di astensione. Per niente affatto: il voto dell’opposizione diventa contrario col pretesto che le modifiche sono state troppo poche. Il disegno di legge ritorna, quindi, a Palazzo Madama per la seconda e definitiva lettura. Il Governo, stavolta, lo "blinda" per evitare un ulteriore passaggio a Montecitorio. Che cosa escogita allora il Pd? I senatori democratici lamentano che il testo della Camera è peggiore di quello varato in prima lettura dal Senato. Così, nella votazione finale, col pretesto di verificare se la maggioranza è in grado di garantire il numero legale, il Pd dell’ex Veltroni non partecipa al voto. Sembra proprio che tale comportamento non abbia, nel suo complesso, alcuna giustificazione di merito. Ma il Pd di Franceschini saprà vincere le vecchie ambiguità? Il "nuovo" gruppo dirigente del Pd saprà chi scegliere tra Ichino e la Cgil?

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