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Ricordi natalizi

Per il ragazzo di ieri che scrive, i ricordi collegati al Natale sono naturalmente molteplici, sia come numero, sia come genere e contenuto: circostanze, azioni, vicende e sensazioni indubbiamente pregnanti, ma, per la verità, nient’affatto trascendentali.
 
Il loro pregio e la loro valenza si misurano semplicemente con le profonde impronte che hanno man mano lasciato dentro e che, a distanza di tanti anni e nonostante i mille frastuoni e scossoni delle stagioni succedutesi, sono ancora vive e pulsanti nella mente e non solo lì.

In quella lontana infanzia, la festività della nascita del Bambinello aveva la sua configurazione centrale nell’allestimento, per opera materna, di un piccolo e rudimentale presepe fatto di vecchi cartoni modellati a grotte e montagnole, colorati di vernici e, alla fine, ricoperti di muschio e di polvere di calce: nella stalla della nascita, le tradizionali statuine del Pargolo, circondato dalla Madonna, S. Giuseppe, il bue e l’asinello, con la graduale aggiunta, quando le finanze familiari lo consentivano, d’altre effigi, vale a dire Re Magi, pastori e pecorelle.

Che bella la Messa di mezzanotte, con il Salvatore portato in processione lungo il perimetro interno della chiesa – oddio, fredda quasi come la grotta di Betlemme, ma nessuno sembrava curarsene – gelosamente nelle mani del vecchio Parroco e preceduto da uno stuolo di bimbe e ragazzine vestite di bianco e con rudimentali coroncine sul capo, a guisa di angeli, frutto, l’insieme, delle amorevoli cure della signorina Nena, un’istituzione, in paese, in quanto, in occasione dei matrimoni, era lei che preparava e forniva i gustosissimi “dolci della zita”.

I regali per i piccoli di casa? Molto poveri e spartani, come i doni portati a Gesù, vale a dire una pigna ed un’arancia a ciascuno. A tavola, niente panettoni o torroni (tali prodotti erano del tutto sconosciuti a Marittima), ma solo una coppa di “pittule” bagnate nel miele e qualche altro semplice dolce, sempre di manifattura materna.
Prerogativa tipica di quel pranzo, le letterine, scritte dai già scolari e infilate sotto il piatto del papà, recitanti, in poche righe, montagne d’impegni e promesse che poi, di solito, non avevano attuazione concreta, e pur tuttavia abituavano al concetto dei buoni propositi.

Durante il pomeriggio, le tradizionali tombolate, che, all’epoca, offrivano ridottissime chance di vincite, tanto misere erano le puntate dei singoli partecipanti.

Scandendo in avanti il tempo, mi sovviene il 25 dicembre 1965, trascorso in compagnia di mia moglie e di Pier Paolo da poco arrivato, e quello immediatamente successivo, orfano del sorriso della mia mamma, congedatasi al Natale con i suoi cari ad appena quarantanove anni.

E poi, agli sgoccioli dello scorso millennio, il Natale che, appena sveglio, ho voluto dedicare, prima ancora che a qualunque altra persona o atto, alla visita in ospedale ad un amico sottopostosi ad un delicato intervento chirurgico, al quale, nell’occasione (unica volta nella mia vita), mi sono peritato di radere la barba (intanto che vado riferendo questa scena, credo che il mio amico, da lassù, mi dica “ciao” con un sorriso).

Mi fermo con il Natale 2005, contraddistinto, oltre che dalla consueta riunione di tutta la famiglia d’adulti, anche dalla presenza del mio diletto nipotino Paolo. Ho riferito una piccola sequenza di ricordi, lontani e recenti, connessi con la festa più bella dell’anno, forse fuori degli abituali schemi, se non addirittura completamente atipici: di ciò chiedo scusa, assicurando, però, che nell’esprimere queste righe ci ho messo il cuore.
 

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