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Le radici lontane del conflitto ucraino

Non è la prima volta che tra le motivazioni di un conflitto contemporaneo vengono portate antiche vicende storiche, rielaborate miticamente per creare un clima adatto alla guerra, e nasconderne le vere ragioni. Il caso più recente e noto è quello del Kosovo, presentato dall’accademia delle Scienze di Belgrado come una terra esclusivamente serba, perduta solo grazie a un tradimento avvenuto nel lontano 1389 da parte di perfidi albanesi schierati col Sultano. Inutile dire che in quell’epoca non esisteva una coscienza nazionale serba o albanese, tanto è vero che gli uni e gli altri erano presenti in tutti e due gli eserciti contrapposti, a secondo di come si erano schierati i loro capi feudali. Inutile perché il conflitto innescato artificialmente con quelle motivazioni immaginarie, esplose comunque, continua ad essere latente, come hanno dimostrato ultimamente gli incidenti ai margini di un incontro di calcio a Belgrado.

Anche sull’Ucraina hanno continuato a circolare interpretazioni diversissime. Una corrente nazionalista russa ha sempre sostenuto e continua a sostenere che l’Ucraina sarebbe sempre stata parte integrante della Russia (la “Piccola Russia”), basandosi sul nome Rus in uso fin dal IX secolo per indicare un esteso territorio provvisoriamente unificato da una dinastia varega (cioè normanna o vikinga). Ma la lingua che vi si parlava prevalentemente era un paleoslavo da cui si sono sviluppati successivamente tanto il russo che l’ucraino e il bielorusso, la capitale dal 988 era Kiev, sulla strada tra il nord varego e Costantinopoli, punto di riferimento importante dopo la conversione al cristianesimo. Mosca non esisteva ancora (la prima menzione è del 1147). Nel corso dei due secoli successivi le invasioni dei mongoli e dei tartari cancellano lo Stato di Kiev e sottomettono il principato di Suzdal all’interno del quale sta emergendo Mosca, mentre una parte dell’Ucraina chiede aiuto alla Polonia e alla Lituania, e gravita quindi verso la chiesa di Roma. Molto tempo prima del concilio di Brešč (Brest Litovsk) del 1596 che creò la chiesa uniate, la gerarchia ecclesiastica dell’Ucraina occidentale si era autonomizzata dal patriarcato di Mosca. Tuttavia l’Ucraina orientale e Kiev rifiutarono di aderire alla nuova chiesa, che appariva uno strumento della Polonia. Quello religioso sarà un costante elemento di differenziazione.

Nello stesso tempo i cosacchi, in origine liberi contadini sfuggiti ai signori feudali e installatisi come cacciatori o briganti in terre di confine, avevano costituito nelle zone orientali a sinistra del Dnepr una struttura autonoma (Zaporožskaja Seč), che difendeva dal Khanato tartaro di Crimea le fertilissime aree coltivate, scontrandosi al tempo stesso con i feudatari polacchi e lituani che non tolleravano quelle bande armate che offrivano protezione ai loro contadini in fuga o in rivolta. I conflitti erano motivati anche sul piano religioso, sia nei confronti dei tatari islamici, sia dei pan polacchi cattolici.

Nel corso del XVII secolo i conflitti si aggravano, e colpiscono spesso duramente anche gli ebrei, odiati perché svolgevano compiti di esattori e venditori di vodka per conto dei proprietari polacchi o lituani. Nel 1648 l’Atamano Bogdan Chmel’nitskij, che precedentemente aveva cercato un appoggio dal Khanato tataro di Crimea in declino, guida una grande rivolta antipolacca accompagnata da pogrom, e poi chiede protezione allo zar che in un trattato del 1654 riconosce ai cosacchi le libertà tradizionali. Nel 1667 la pace di Andrusovo tra Russia e Polonia sancisce la divisione tra Ucraina occidentale polacca e quella orientale russa, con frontiera rappresentata dal Dnepr, che sarebbe durata fino alla seconda spartizione della Polonia nel 1793, che fece passare sotto la dominazione russa parte dell’attuale Ucraina. Ma già in tutto il XVIII secolo i rapporti tra i cosacchi e Mosca erano peggiorati progressivamente: nel 1709 l’atamano Ivan Mazeppa aveva tentato di allearsi col re di Svezia Carlo XII contro Pietro il Grande, ma la vittoria russa di Poltava aveva segnato la fine delle speranze cosacche; nel 1764 la grande Caterina aveva destituito l’ultimo atamano di Zaporožje, e pochi anni dopo – sconfitta la rivolta di Pugačëv, un cosacco del Don – aveva cancellato gli ultimi residui delle libertà cosacche.

Già con la prima spartizione della Polonia nel 1772 la Galizia, multietnica ma con una forte componente ucraina, venne attribuita all’Austria, da cui dopo una prima fase fortemente repressiva, con la riforma del 1867 ottenne una larga autonomia. L’università di Leopoli (Lemberg in tedesco, L’viv in ucraino, L’vov in russo, Lvuv in Yiddish…), diviene un punto di riferimento culturale per il resto della popolazione incorporata nella Russia, che subiva invece molti ostacoli all’uso della lingua nazionale perfino nella prima università istituita a Harkov nel 1808, nel quadro di una politica di russificazione che non riguardava solo l’Ucraina.

Ma sorgono ugualmente riviste e società segrete, e si diffondono traduzioni di classici russi ed europei senza che l’ukaz di Ems del 1876, che vietava di stampare opere in lingua ucraina, ottenesse il risultato desiderato: è la Galizia a prendere la guida del movimento nazionale, con una casa editrice legata alla Società Ševčenko che stampa e fa arrivare facilmente in territorio russo i libri proibiti. I giovani di Leopoli per sottolineare il loro patriottismo adottano il costume cosacco (che era del tutto sconosciuto in Galizia) e militano in diverse associazioni, che nel 1890 si unificheranno in un Partito Nazionale Democratico Ruteno, mentre alcuni emigrati politici in Svizzera stampano a Ginevra e fanno arrivare clandestinamente nelle due Ucraine una rivista nazionalista “Hromada”, dal nome dell’antica comunità contadina ucraina. È in quegli anni che si forma una coscienza nazionale ucraina che rivendica l’autonomia da San Pietroburgo e da Vienna, e che si scontrerà presto con il risveglio nazionale polacco, che considera Leopoli parte integrante della nazione polacca. Alcuni settori minoritari cominciano a chiedere però la totale indipendenza di tutte le terre ucraine, “dai Carpazi al Caucaso”.

Ma saranno i prodromi della rivoluzione del 1905 a far fare un salto qualitativo: tra il 1900 e il 1903 ci sono agitazioni studentesche a Kiev contro l’autoritarismo zarista, grandi disordini nelle campagne e anche scioperi che coinvolgono centinaia di migliaia di operai di Kiev, Odessa, Nikolaev, Ekaterinoslav, ecc. Sono agitazioni che si saldano a quelle di altre parti dell’impero, e non hanno in genere una caratterizzazione nettamente nazionale ucraina. D’altra parte il populismo ucraino non è che un aspetto del populismo russo, il socialismo rivoluzionario è strettamente legato a quello russo, e il primo circolo marxista è promosso a Ekaterinoslav nel 1897 da un collaboratore di Lenin, Ivan Babuskin, proveniente dalla capitale e confinato in quella città.

Tuttavia si moltiplicano anche iniziative nazionaliste presentate come culturali: nel 1903 ad esempio si inaugura a Poltava un monumento a Ivan Kotljarevskij, autore un secolo prima di un poema eroi-comico L’Eneide travestita, considerato il punto di partenza della letteratura moderna in lingua ucraina. Fa scalpore che solo gli oratori provenienti dalla Galizia o dalla Bucovina possono parlare ucraino, mentre quelli locali e delle altre zone appartenenti all’impero zarista devono usare il russo.

La rivoluzione del 1905 investe direttamente anche l’Ucraina: basti pensare all’episodio notissimo dell’incrociatore Potëmkin, con la famosa scalinata di Odessa, ma ci sono ovunque scioperi operai, e sollevazioni contadine. Ovunque, in Ucraina, ma senza una caratterizzazione nazionale specifica. Sarà la relativa libertà strappata a facilitare la presa di coscienza dell’esistenza di un problema ucraino, grazie alla tribuna rappresentata dalla Duma: nella prima, ci sono 98 eletti in Ucraina, di cui 40 formano un “blocco ucraino”. Tra essi lo storico Mykhajlo Hruševs’kyj, professore dell’università di Kiev (ma per anni rifugiato a Leopoli) pubblica a San Pietroburgo un giornale che espone (in lingua russa) il punto di vista del nazionalismo ucrainoUkraïnski Vestnik. Ma nel frattempo a Odessa e Kiev compaiono i primi giornali senza censura, e si stampano le opere del poeta nazionale Ševčenko. Lo stesso Hruševs’kyj già nel 1907 comincia un corso in ucraino all’università di Odessa. L’ukaz di Ems non viene formalmente abolito, ma l’Accademia Imperiale ha riconosciuto nel febbraio del 1906 che l’ucraino non è un dialetto russo, ma una vera lingua.

Il blocco ucraino arriva a 47 deputati nella seconda Duma, che sarà però disciolta da Stolypin dopo pochi mesi come la prima, perché ingovernabile. Aveva pubblicato un suo giornale, questa volta in ucraino, Ridna Sprava [Affari Nazionali], che rivendica l’autonomia all’interno dell’impero. La terza Duma sarà invece stravolta dalla nuova legge elettorale fortemente censitaria.

Tuttavia le classi dominanti hanno sentito il pericolo, e non si limitano alla repressione ma accentuano fortemente il nazionalismo grande russo, nel clima di incertezza e di timore di una possibile guerra. La Russia, provata dall’umiliante sconfitta nella guerra russo-giapponese e allarmata per l’esplosione della rivoluzione, punta a un riarmo accelerato a cui contribuiscono poderosamente i crediti francesi. Le libertà strappate dagli ucraini e da altre nazionalità vengono rapidamente erose. Nel 1910 rimane, mal tollerato e spesso censurato, uno solo dei numerosi giornali in lingua ucraina, Rada, e Stolypin denuncia davanti alla Duma addomesticata il separatismo ucraino.

L’uso della lingua ucraina è ostacolato di nuovo anche nelle università, le case editrici vengono chiuse, e i partiti sono costretti a pubblicare i loro organi a L’viv e in altre città della Galizia, facendoli poi entrare clandestinamente. Naturalmente questo appariva una “prova” della matrice austriaca del nazionalismo ucraino. Intanto il paese veniva invaso da un gran numero di pubblicazioni governative, diffuse da organizzazioni come l’Unione del popolo russo e l’Unione dell’arcangelo Michele.

Il centenario della nascita del poeta nazionale ucraino, Taras Ševčenko, nel 1914, prevedeva una serie di manifestazioni celebrative, che vengono ostacolate o vietate, mentre una campagna forsennata presenta Ševčenko come separatista e blasfemo (con una dichiarazione del Santo Sinodo ortodosso!). Ma in forma semiclandestina in tutte le maggiori città e perfino nelle campagne le celebrazioni si tengono ugualmente.

Sarà la guerra a far compiere un salto alla repressione sia nell’Ucraina storicamente appartenente alla Russia, con chiusure di circoli e deportazioni di intellettuali come lo storico Hruševs’kyj, sia nella Galizia occupata nella prima fase dell’offensiva russa.

Nel corso dell’occupazione di Galizia e Polonia del 1914-1915 le autorità militari russe deportarono centinaia di migliaia di persone “sospette”, non solo quelle di lingua tedesca (comprese donne e bambini), ma anche intellettuali ucraini considerati automaticamente agenti di austriaci e tedeschi. Furono colpiti dalla repressione anche un gran numero di ebrei, ritenuti potenziali collaboratori degli Imperi Centrali solo perché parlavano quello che ai solerti poliziotti zaristi appariva un “dialetto tedesco” (lo yiddish!). E questo nonostante la maggior parte delle sinagoghe dell’impero russo avessero recitato preghiere per la vittoria della Russia, e perfino organizzato un corteo a Pietrogrado. In realtà le correnti borghesi del movimento nazionale ucraino erano abbastanza equamente divise tra chi puntava sull’appoggio austriaco e chi pensava di poter avere l’indipendenza dalla Russia, e questo peserà anche dopo la proclamazione dell’indipendenza da parte della Rada, il 23 giugno 1917: la Rada si appoggerà disinvoltamente agli Imperi Centrali, mettendo in pericolo la stessa esistenza della giovane repubblica sovietica, che aveva il torto di essere inizialmente quasi esclusivamente russa e quindi considerata corresponsabile del comportamento brutale nei confronti della popolazione civile delle zone di confine durante la guerra. In realtà atteggiamenti simili erano stati praticati da quasi tutti i contendenti, italiani compresi. Questi, nei primi giorni dopo l’entrata in guerra nel maggio 1915, avevano rallentato l’avanzata nonostante i rapporti di forza momentaneamente favorevoli, per attardarsi a rastrellare preti e insegnanti di lingua slovena, ritenuti in blocco potenziali collaboratori degli austriaci. Anche se non paragonabili al genocidio degli armeni da parte della Turchia, le deportazioni effettuate dall’esercito russo nel primo anno di guerra riguardarono circa un milione di persone, e soprattutto nella Galizia e nelle altre regioni occidentali dell’Ucraina occupate in cui furono accompagnati talvolta da pogrom, lasciarono risentimenti antirussi profondi, che a volte riaffioreranno anche in epoche successive.

Il pregiudizio antiucraino comunque era stato facilitato dal fatto che piccoli gruppi di esuli dall’Ucraina orientale affiancarono con formazioni volontarie i 250.000 soldati galiziani inquadrati nell’esercito austroungarico, mettendo in difficoltà i leader nazionali rimasti nell’impero zarista, che ripetevano la loro fedeltà a Pietrogrado, difendendo uno Stato federale russo, ma erano sospettati di essere agenti del nemico, benché nell’esercito zarista stessero combattendo tre milioni e mezzo di ucraini. Oltre a tutto le formazioni volontarie ucraine nel 1918 si scontrarono in Galizia soprattutto con i polacchi, il cui peso si era accresciuto in seguito alla deportazione di tedeschi ed ebrei.

Comunque come conseguenza indiretta di questo clima, durante la Grande Guerra nel dibattito politico russo la difesa dei diritti degli ucraini diventava sinonimo di disfattismo e di collaborazione con il nemico. Per questo, nella fase del disfacimento dell’impero sotto i colpi della rivoluzione, solo i bolscevichi ebbero il coraggio di difendere il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e delle altre nazionalità incorporate a forza nell’impero zarista.

Già nel 1914 Lenin ribadiva, citando Marx ed Engels, che “un popolo che opprime altri popoli non può emancipare se stesso”, e pur sostenendo ancora di essere per la centralizzazione, “contro l’ideale piccolo borghese dei rapporti federativi”, concludeva che “non è affar nostro […] aiutare i Romanov […] a schiacciare l’Ucraina”. E concludeva affermando che

“Se la storia decide la questione a favore del capitalismo imperialista grande russo, ne risulterà che i compiti socialisti del proletariato grande russo, forza motrice della rivoluzione comunista generata dal capitalismo, saranno molto più grandi. Ora, per la rivoluzione proletaria è necessaria una lunga opera di educazione degli operai nello spirito della più completaeguaglianza e fratellanza nazionale. Dal punto di vista, quindi, degli interessi del proletariato grande russo s’impone una lunga opera di educazione delle masse nel senso della rivendicazione più energica, più conseguente, più coraggiosa, più rivoluzionaria dell’eguaglianza completa delle nazionalità e del diritto all’autodecisione di tutte le nazioni oppresse dai grandi-russi”. [Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1961, vol. 21, pp. 92-93.]

Nel giugno del 1917, rientrato in Russia, Lenin ritorna sull’argomento commentando una risoluzione “universale” promulgata dalla Rada centrale ucraina e approvata dal congresso delle truppe ucraine, che rivendicava il diritto del popolo ucraino a “disporre esso stesso della propria vita nel proprio territorio”, anche se accettava ancora che le leggi generali fossero promulgate da un parlamento di tutta la Russia.

Nessun democratico – commenta Lenin – può negare il diritto dell’Ucraina a separarsi liberamente dalla Russia: proprio il riconoscimento senza riserve di questo diritto, ed esso soltanto, permette di condurre una campagna per la libera unione degli ucraini e dei grandi russi, per l’unione volontaria dei due popoli in un solo Stato. Proprio il riconoscimento senza riserve di questo diritto […] può finalmente rompere fino in fondo, irrevocabilmente, col maledetto passato zarista che ha fatto di tutto per rendere stranieri popoli tanto vicini per lingua, per territorio, per carattere e per storia. Il maledetto zarismo ha trasformato i grandi russi in carnefici del popolo ucraino, alimentando in ogni modo fra gli ucraini l’odio verso coloro che impedivano perfino ai bimbi ucraini di parlare e di studiare la loro lingua materna.”

Lenin proseguiva sostenendo che “la democrazia rivoluzionaria della Russia” deve rompere con questo passato, e non può farlo “senza riconoscere pienamente i diritti dell’Ucraina, compreso il diritto alla libera separazione”. E polemizzando con i dubbi espressi “da sinistra”, ribadiva che “non siamo fautori dei piccoli Stati. Siamo per l’unione più stretta degli operai di tutti i paesi contro i capitalisti, i «propri», e quelli di tutti i paesi in generale. Ma proprio perché questa unione sia volontaria, l’operaio russo, non fidandosi per niente e nemmeno per un momento né della borghesia russa, né della borghesia ucraina, è ora favorevole al diritto di separazione degli ucraini, non impone loro la sua amicizia, ma la conquista trattandoli come eguali, come alleati e fratelli nella lotta per il socialismo”. [Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. 25, pp. 83-84.]

Due giorni dopo ritornava sull’argomento con un articolo infuocato sulla Pravda, in cui sferzava i “signori socialisti-rivoluzionari e menscevichi” che si sono fatti influenzare dalle urla controrivoluzionarie dei proprietari fondiari e dei capitalisti grandi russi, che rifiutano di riconoscere le frontiere con l’Ucraina e chiedono una “garanzia di legittimità”. E risponde che “è una palese menzogna, signori, è un’evidente impudenza da controrivoluzionari; avanzare questo argomento vuol dire di fatto aiutare i veri traditori e rinnegati della rivoluzione!!”.

«Garanzie di legittimità»… Pensateci solo un istante. In Russia non ci sono in nessun posto, né nel governo centrale, né in alcun organismo locale (tranne in un’istituzione assai limitata, le Dume di quartiere di Pietrogrado) garanzie di legittimità, ed è perfino notorio che non c’èlegittimità. È notorio che non c’è «legittimità» nell’esistenza della Duma e del Consiglio di Stato. Non c’è notoriamente «legittimità» nella composizione del governo provvisorio poiché la sua composizione è un’irrisione alla volontà e alla coscienza della maggioranza dei contadini, degli operai e dei soldati della Russia. Non c’è notoriamente «legittimità» nella composizione dei soviet […] poiché le garanzie di una rigorosa e completa democrazia nelle elezioni di questi organismi non sono ancora state elaborate, il che non impedisce al nostro partito e a tutta la massa degli operai e dei contadini di ritenerli la migliore espressione della volontà della maggioranza del popolo nell’attuale momento. In nessun posto in Russia ci sono, né possono esserci, né ci sono mai stati in momenti rivoluzionari come questi, «garanzie di legittimità». Tutti lo capiscono, nessuno esige altro, tutti si rendono conto che ciò è inevitabile. Soltanto per l’Ucraina «noi» esigiamo «garanzie di legittimità»! [Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. 25, pp. 92-93.]

Ci sono molti altri scritti di Lenin che insistono sul diritto all’autodecisione, compreso il diritto alla separazione, e nominano esplicitamente l’Ucraina come primo esempio. In un discorso alla settima conferenza panrussa del POSDR, aveva polemizzato soprattutto con i compagni polacchi particolarmente ostili al diritto all’autodecisione, domandando: “Perché noi, grandi-russi, che opprimiamo più nazionalità di quante ne opprima ogni altro popolo, dobbiamo rifiutarci di riconoscere alla Polonia, all’Ucraina e alla Finlandia il diritto di separazione?”. Lenin sa che la preoccupazione dei polacchi è legata alla necessità di distinguersi dalla componente maggioritaria del socialismo del loro paese, che è pronta a trattare la propria indipendenza con alleanze spurie. D’altra parte Lenin ribadisce che lo scopo finale è quello di una ricomposizione in una federazione democratica (non ha più il rigetto iniziale per la proposta federalista). Polemizza indirettamente con Rosa Luxemburg, che è in carcere, ma chiede a Feliks Dzeržinskij, che sostiene che “nella sua Polonia oppressa sono tutti sciovinisti”, perché nessun polacco ha detto niente a proposito della Finlandia o dell’Ucraina. “Dal 1903 in poi ne abbiamo discusso tanto che è perfino penoso parlarne. […] Chi non accetta questa posizione è un annessionista, uno sciovinista.” E conclude seccamente:

"Noi vogliamo l’alleanza fraterna di tutti i popoli. Se vi saranno una repubblica ucraina e una repubblica russa, la fiducia reciproca sarà più profonda, e i legami tra questi due paesi saranno più stretti. Se gli ucraini vedranno che da noi esiste una repubblica dei soviet, non si separeranno più, ma, se noi avremo la repubblica di Miliukov [cioè borghese], gli ucraini si separeranno. […] Ma ogni socialista russo che si rifiuti di riconoscere la libertà della Finlandia e dell’Ucraina cadrà nello sciovinismo. [Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1966, vol. 24, pp. 306-309.]

Di frasi come queste ce ne sono moltissime in tutto l’arco dei suoi scritti. Spesso sferza l’ipocrisia dei socialisti rivoluzionari che si preoccupano dell’India e dell’Irlanda, ma tacciono sull’Ucraina o la Finlandia, che sono “le nostre India e Irlanda”. È quindi falsa la tesi dei tanti che rifiutano oggi il principio di autodeterminazione con argomenti più o meno esplicitamente luxemburghiani e che sostengono che Lenin aveva parlato di questo diritto solo per fini tattici, prima della conquista del potere. Falsa sia per l’uso furbesco del concetto di tattica, che sarebbe sinonimo di inganno, sia perché se nella drammatica situazione della guerra civile Lenin aveva sottovalutato la pericolosità di alcuni episodi, come l’unione forzata di Georgia, Armenia e Azerbaigian in una repubblica caucasica, se ne era poi amaramente autocriticato proprio negli scritti considerati il suo testamento.

"A quanto pare sono fortemente in colpa verso gli operai della Russia perché non mi sono occupato con sufficiente energia della famosa questione della autonomizzazione, ufficialmente detta, mi pare, questione della unione delle repubbliche socialiste sovietiche. [...] Si dice che ci voleva l'unità dell'apparato. Ma di dove sono venute fuori queste affermazioni? Non sono forse venute proprio da quell'apparato russo che, come ho già rilevato in una delle note precedenti del mio diario, abbiamo ereditato dallo zarismo, e che è stato solo appena ricoperto di uno strato di vernice sovietica" [Lenin, Opere, vol. XXXVI, 1969, pp. 439-440. Anche le tre citazioni successive provengono da questo volume].

Lo scritto di Lenin insisteva sul ruolo di quell'apparato «che noi chiamiamo nostro», ma che «in realtà ci è ancora profondamente estraneo» e che «rappresenta il filisteismo borghese e zarista». Un apparato «la cui trasformazione in cinque anni, mancando l'aiuto [della rivoluzione] di altri paesi e prevalendo le "occupazioni" della guerra e della lotta contro la fame, non era assolutamente possibile».

In tali condizioni è perfettamente naturale che la "libertà di uscire dall'Unione", con la quale ci giustifichiamo, si rivela un'inutile pezzo di carta, incapace di difendere gli allogeni della Russia dall'invasione di quell'uomo veramente russo, da quello sciovinista grande-russo, in sostanza vile e violento, che è il tipico burocrate russo.

L'atteggiamento di Lenin era motivato da una riflessione sull'esperienza georgiana, a cui dedicò la sua «ultima battaglia», appoggiando decisamente la minoranza georgiana perseguitata da Stalin, e chiedendo su questo problema – invano - l'appoggio di Trotskij.

Continua


Foto: Bemphoto/flickr

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