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Ridare parola all’homo loquax: lettera aperta agli internauti sulla democrazia dislocata

Forse quello che Zagrebelsky considera un limite della democrazia, cioè l’uso eccessivamente intensivo ed estensivo del termine, questo essersi trasformato in “sintesi di tutte le cose buone e belle che riguardano la vita dello stato, della società e perfino della famiglia e degli individui tra loro”, questo essersi “impadronita del lessico degli uomini politici” e costituirsi come “la categoria-base su cui si collocano e a cui si confrontano tutte le nostre azioni, relazioni e pensieri non puramente privati”, potrebbe anche rappresentare per tutti noi una risorsa. A patto che non divenga mai, come Lui teme, “un concetto idolatrico onnicomprensivo (Allumfassender idolbegriff)”.

Però, la dimensione intensiva ed estensiva del concetto di democrazia potrebbe opportunamente essere la migliore condizione dell’azione nella società della comunicazione, la connotazione essenzialmente etica dell’agire comunicativo.

La mutazione cognitiva della politica moderna è avvenuta grazie ad Hannah Arendt che ci ha insegnato, dopo anni in cui si studiavano i regimi come forme, e dunque anche la forma della democrazia, che la politica moderna è essenzialmente azione. Solo per questo la democrazia, o meglio il processo di democratizzazione, da un certo momento in poi si è contrapposto, non più alla tirannide o alla oligarchia, ma al totalitarismo, dominio intensivo ed estensivo della vita anche privata degli individui. Un dominio costruito sull’azione che diventa presto privazione di vita. Non più allora soltanto una forma di governo.

La politica moderna, diceva Hannah Arendt, “nasce nell’infra e si afferma come relazione”. Sennonché, con l’avvento della società della comunicazione e con la pervasiva espansione dei mezzi di comunicazione di massa, la politica è entrata nell’intra, orienta pensieri e desideri, costruisce scenari di verità che nulla hanno a che fare con le situazioni della realtà, domina ossessivamente la nostra mente più di quanto riesca a farlo con i nostri corpi e produce una drammatica scissione simbiotica tra ciò che crediamo di essere e ciò che siamo, infonde in noi una nuova paura, una più radicata insicurezza. Se la concezione della democrazia fosse davvero più intensa e più estesa, non ci dispiacerebbe affatto. E invece non lo è. La democrazia appare eccessivamente invadente soltanto perché è dislocata. Sta ovunque, ma non più laddove si produce il nuove potere mediatico.

Il potere mediatico è decisamente pervasivo. Passa dovunque, immateriale, impercettibile eppure assolutamente ipnotico. Invisibile a tutti cambia le società moderne e il sistema di relazioni, la vita dei cittadini nei loro rapporti e la percezione dei governanti che considerano e chiamano crisi una transizione d’epoca, soltanto perché hanno perduto i loro punti di riferimento e perché il nuovo potere che li avvolge e li travolge è etereo. Cambiano i rapporti affettivi e lo scambio comunicativo, il concetto di presente, la tradizionale articolazione dello spazio e del tempo, cambia la mente, i suoi ragionamenti e i suoi sentimenti. Il potere della società della comunicazione è come un fumo che non riesci mai a prendere, ma che respiri nell’aria, ogni istante, nella perfetta condizione dell’aria che non si sa se è interna o esterna, è nell’infra e nell’intra al tempo stesso.

Se il concetto di democrazia fosse effettivamente intensivo ed estensivo, potrebbe essere effettivamente una delle condizioni del potere moderno, una metodologia di gestione della sua pervasività. E invece non lo è. Il concetto di democrazia è semplicemente sbilanciato, riferito ad istituti ed istituzioni non fondamentali per i processi di stratificazione sociale, lontana dai meccanismi effettivi del potere moderno.

Ciò di cui si ha incontrovertibilmente bisogno è tarare la democrazia, ricollocarla, individuare i veri meccanismi del potere nella società della comunicazione e discutere gli strumenti e le applicazioni della politica che non è più ormai definitivamente forma, ma azione, azione comunicativa.

Questa funzione, quella di ricollocare le cose al loro posto con una discussione critica sul fenomeno sociale e politico, è sempre stato il compito della filosofia politica. Forse è per questo che la si tiene in ombra, nel bisbiglio di un club amatoriale. Invece la filosofia politica ha il compito della contestazione critica e della elaborazione delle idee. È un compito temuto, perché disturba. Ma non è per questo che si mantiene nel silenzio della marginalità. I partiti politici non trattano più i temi dei loro ideali guida, rinunciano alla discussione sulla weltaschauung della propria aggregazione, eliminano centri di ricerca e luoghi di discussione, perché temono profondamente la produzione di pensiero che genera le trasformazioni. Avere una concezione del mondo significa almeno avere un mondo, far riferimento ad una realtà, avere una verità come ipotesi di realtà da confrontare ad altre verità come ipotesi di altre verità: insomma, un confronto critico che ci aiuta sempre più a decodificare il fenomeno storico presente.

Invece la democrazia non collocata permette il dominio della monocrazia, della parola monotematica, del mondo azienda, del mondo caserma, proclamato e preteso, affermato come unico elemento ordinatore contro la pluricrazia della complessità e del rispetto delle diversità. Il bisbiglio della filosofia politica lascia libera la supremazia monocratica di una sola ossessiva litania.

Qualche tempo fa, un notissimo libro di Giovanni Sartori cominciava così: “La politica è il fare dell’uomo che più di ogni altro tocca tutti e riguarda tutti. Non è, questa, una definizione della politica. È per dire in esordio che a me interessa arrivare al fare, alla prassi. Sennonché il fare dell’uomo è preceduto da un discorso (su quel fare). Il discorrere dell’homo loquax precede l’azione dell’uomo operante. Dunque, l’azione e i comportamenti politici sono preceduti e contornati dal discorrere sulla polis, sulla città.

Per gestire il potere pervasivo nella società della comunicazione è indispensabile far tacere l’homo loquax. Per fare ciò che si vuole fare, liberi e senza controllo critico, avendo in mano le leve per far dire ciò che si vuole che si dica, era necessario fare in modo che il dire critico del pensiero fosse messo in sordina. Servivano parole vuote per creare pensieri vuoti, non pensieri come i non luoghi di Max Augè, e la clamorosa confusione di lustrini e stellette. Una omologazione assoluta al vuoto di pensiero per fare in modo che una verità totalmente scissa da ogni realtà si affermasse nella mente dei teleutenti non più cittadini; una verità fine a se stessa in grado di costruire “a posteriori”, dopo essere stata creduta, la realtà che si preferisce avere.

Nel mio ultimo libro ho definito quarta cosmogonia l’avvento della società della comunicazione e l’affermazione del nuovo epipower, il potere epistemologico della verità sulla realtà. Per me, dunque, tanti equivoci, anche dolorosi come i tentativi di soluzione della crisi economica, nascono dalla mancata definizione critica di questa cosmogonia. Avverrà. Sta avvenendo senza che le classi dirigenti e il ceto politico che governa gli Stati se ne renda conto. La democrazia è sbilanciata per questo. Senza essere intensiva né estensiva è estranea ai meccanismi di gestione del nuovo potere epistemologico della società della comunicazione.

Se vogliamo esserci, se vogliamo partecipare alla cosmogonia nuova che si sta costruendo dobbiamo inevitabilmente tornare alle origini della politica. “Se dobbiamo cominciare dall’inizio, l’inizio è questo: il discorso sulla politica”.

Faccio appello ai partiti politici, allora, a tutti i partiti politici anche se principalmente a quelli che fanno della democrazia la loro visione del mondo, la loro concezione della fenomenologia dell’esistente. Ma se loro non vogliono accogliere questo appello, questo stesso appello si può trasferire a ciascuno di noi, ai nostri domini relazionali, ai nostri sistemi affettivi, al confronto amoroso che abbiamo ogni giorno insieme con gli intrighi della vita e le nostre speranze. La struttura tecnologica della società ci permette di stare assieme, connessi, e trovare via internet i mezzi per collocare una democrazia nell’agire comunicativo volutamente lasciata laddove non disturbi e non condizioni gli interessi e la autonomia del potere mediatico incontrollato moderno.

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