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Quando la Rete uccide

«Quando la Rete uccide» (il Fatto di oggi) è sbagliato per tanti, troppi motivi. Perché banalizza e semplifica un gesto assoluto, il suicidio, e le sue ragioni. Perché prosegue e amplifica la retorica – errata – che fa di Internet un soggetto. Perché, di conseguenza, sposta la responsabilità da chi insulta al mezzo su cui insulta (un vizio che va ben oltre il quotidiano di Padellaro e Travaglio, sia chiaro).

Perché attribuisce a quegli insulti un ruolo che forse non hanno avuto (si legga il resoconto della parlamentare Pd Anna Paola Concia dopo la visita tra gli ex compagni del quindicenne che si è ucciso). Perché il concetto di ‘suicida ucciso’ ha senso quanto quello di ‘cerchio quadrato’. Perché alimenta le volontà censorie di chi, credendo a quella trasposizione dei fini nel mezzo, ritiene che regolando il mezzo (in questo caso, i social network) si elimini il pericolo.

Ed ecco spuntare il sociologo che ammonisce: «I gestori dei social network dovrebbero essere molto più attenti ai contenuti» (sempre il Fatto, p.3). Aprendo la porta a una indebita responsabilizzazione degli intermediari della comunicazione (quella che anche al Fatto hanno chiamato – giustamente – bavaglio quando riguardava le tante recenti proposte liberticide sul web avanzate dai legislatori di tutto il mondo). Che, è conseguenza logica, finirebbero per diventare colpevoli di omesso controllo per qualunque insulto non ‘moderato’ o rimosso. E quindi, è il passo ancora successivo, sceglierebbero l’unica strada possibile: i filtri preventivi.

Con questo non si vuole minimizzare o banalizzare il problema del cyber-bullismo, degli insulti che alimentano spirali di disperazione la cui profondità è insondabile a chiunque non ne sia mai stato almeno sedotto. Si vuole semplicemente – e banalmente – dire che «la Rete» non uccide nessuno, che sono le persone a farlo. Che prima di emettere sentenze bisognerebbe cercare, con molta umiltà, di capire. E che, specie in casi delicati come questi, le esigenze giornalistiche dovrebbero lasciare il passo al rispetto per l’umanissima complessità dei fatti.

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