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Quale storia nel tempo della globalizzazione?

Ha ragione Fulvio Cammarano a sostenere che c’è un processo di graduale emarginazione della storia, tanto dagli assetti scolastici ed universitari, quanto dal dibattito politico, a favore di un rapporto preferenziale con altre discipline quali sociologia, politologia ed economia (al punto che i pochi storici interpellati dai media come Orsina, Pombeni, Galli della Loggia ecc. sono presentati come politologi; anche per questo, quando mi capita di partecipare a trasmissioni televisive, chiedo puntigliosamente di essere presentato come storico). Per uscire da questa situazione, tuttavia, è necessario che gli storici passino al contrattacco, dimostrando come e perché sociologia, economia e politologia, pur necessarie, da sole non bastano a rispondere alle sfide del presente e che la storia, con la sua visione di lungo periodo, sia indispensabile.
Il tempo della globalizzazione esige un profondo rinnovamento culturale, che ha un grande bisogno del contributo della storia a sua volta radicalmente rinnovata. Se vogliamo capire il perché dei fondamentalismi, le dinamiche dell’incontro-scontro dei diversi modelli di civiltà, le caratteristiche peculiari dei diversi sistemi economici sommariamente indicati tutti come “capitalismi”, le caratteristiche peculiari della crisi economico finanziaria in atto o anche la portata del tentativo di Papa Francesco, la storia è uno strumento non sostituibile. Sempre, però, che ci sia un mutamento profondo tanto delle tematiche indagate quanto dell’approccio metodologico.

A lungo la storiografia italiana ha subito il benefico influsso della scuola francese degli Annales con la sua attenzione al micro, ma questo ormai non è più utile in un tempo che, al contrario, esige una visione macro. A lungo lo studio del Novecento ha avuto al suo centro la vicenda del fascismo, della II guerra mondiale eccetera, ed è giusto che questo campo di studi non sia abbandonato, ma oggi occorre avere altre centralità tematiche come la storia della colonizzazione e del suo sedimento storico, la storia del welfare e della sua degenerazione burocratica, la storia delle rivoluzioni militari del secolo, in particolare dagli anni sessanta in poi, la storia delle telecomunicazioni e dei trasporti che è fondamentale per comprendere le contaminazioni culturali accumulatesi ecc. Peraltro anche la storia del comunismo e delle rivoluzioni socialiste (tema più “classico”), sinora non ha ricevuto l’attenzione necessaria (se si esclude il filone criminalizzante e fazioso dei Conquest o dei Courtois) ed esige una riflessione complessiva, non prevalentemente ideologica, non centrata sulla sola Russia o sulla sola dimensione statuale.

Soprattutto occorre ridefinire categorie polisemiche come quelle di nazione, classe ecc. largamente usate, ma con significati sempre più differenziati e fonti di continui equivoci, tanto più quando le si applica a contesti culturali non europei ed in particolare asiatici. Abbiamo bisogno di ridefinire dinamicamente le identità nazionali, sociali, politiche attualmente in gioco, abbiamo bisogno di spiegare il presente non solo sulla base del passato relativamente recente della storia contemporanea, ma spingendo lo sguardo sino alle epoche più remote, alla ricerca delle radici dei diversi modelli di civiltà, abbiamo bisogno di allargare l’orizzonte dalla sola storiografia politica che è giusto che resti centrale ma che deve essere riletta nell’incrocio con la storia culturale, psicologica, economica ecc.

Ma questo esige un netto cambiamento metodologico: dove i paradigmi storiografici correnti sono prevalentemente lineari, narrativi, orientati al giudizio morale, nazionali, mono disciplinari, analogici, occorre passare a paradigmi basati sul pensiero della complessità e sull’esame delle dinamico contro intuitive, esplicativi, avalutativi, internazionali, trans disciplinari, comparativi.

E questo non è possibile farlo senza il confronto con sociologi (che farebbero bene a ricordare che qualcuno ha parlato di “metodo storico delle scienze sociali”) economisti, antropologi, politologi, psicologi ecc. La cosa peggiore sarebbe un conflitto fra corporazioni accademiche, dove, al contrario, necessita un grande rassemblement delle scienze storico sociali, violando gli steccati che le hanno tenute separate così a lungo e così, ingiustificatamente.

E questo anche riconsiderando totalmente i destini professionali degli studenti che scelgono la storia come proprio specialismo: lo sbocco dell’insegnamento continuerà ad esserci, ma non più esclusivo e neppure maggioritario. Al contrario si stanno affermando sempre più due diversi profili professionali. Quello degli addetti alla comunicazione storica o, se preferite, con un termine più vetusto, della divulgazione (format televisivi, mostre, musei, cinematografia, wargame, ecc.). E quello degli analisti. In particolare questo ultimo profilo, il cui scopo è comprendere le dinamiche di lungo termine, è sempre più indispensabile ai decisori sia politici che economico finanziari.

Dice giustamente Cammarano che se Bush jr avesse avuto qualche serio storico nel suo staff forse avrebbe fatto meno disastri in Iraq ed io aggiungo, che se i decisori finanziari avessero consulenti in analisi storica, probabilmente capirebbero meglio la crisi attuale, curata solo con continui gettiti di liquidità, come se fosse la crisi del 1929. Lasciati a sé stessi, gli economisti, troppo spesso, sanno come curare la crisi precedente, ma capendo poco si quella in atto. Paradossalmente è proprio da una solida conoscenza storica che dipende la comprensione delle specificità del presente.

Ma per produrre analisti di questo tipo occorre adattare la nostra didattica in questo senso (a proposito: benissimo l’idea di separare l’insegnamento della storia da quello della filosofia o dell’Italiano), e, a sua volta, questo esige il rinnovamento della nostra ricerca.

Ed allora, cari colleghi, buttiamoci dietro le spalle le impostazioni del passato (a cominciare dal persistente alito crociano che ammorba le nostre facoltà) e facciamoci valere, dimostrando che la storia è ancora disciplina viva e necessaria.

Pezzo apparso su La Lettura.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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