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Premierato all’italiana, la realtà è irriformabile

Come da programma elettorale, la maggioranza tenta di neutralizzare i presunti agenti di precedenti rovinosi collassi di governi di destra, cioè Quirinale e parlamento. Ma la realtà resta irriformabile

 

Da quando è nato questo governo, tengo sotto mano e sott’occhio una copia del programma elettorale di Fratelli d’Italia e della coalizione, perché mi pare di aver intuito una qualche determinazione nel cercare di attuarlo. Se vivessimo in un paese normale, questa sarebbe una non notizia: vi pare che, a distanza di un anno dall’insediamento, un governo dovrebbe accantonare i punti qualificanti del suo programma? Ma, non essendo questo un paese normale bensì uno di cantastorie e affabulatori lisergici, questa parvenza di coerenza mi colpisce positivamente.

Ovviamente, può esserci coerenza anche nel perseguimento dell’obiettivo di gettarsi da una rupe, ma non facciamo troppa filosofia e guardiamo al punto relativo alle riforme costituzionali e in particolare a quella relativa all’elezione diretta del capo dell’esecutivo, la cui bozza è stata presentata giorni addietro.

UN PREMIER DA BOOM ECONOMICO

Una bozza piuttosto lasca, nel senso che manca di “dettagli” che possono fare la differenza tra un’idiozia e una riforma, ma vedremo il percorso parlamentare, ovviamente non breve. Da cosa origina, questo tentativo di riforma? Da una premessa che è “ben” spiegata nel programma di Fratelli d’Italia, anche se lì si parla di “presidenzialismo” e non di premierato. Forse i nostri eroi non se la sono sentita di spingersi così in fondo.

Negli ultimi 20 anni l’Italia ha avuto 11 diversi governi. Una instabilità che ci indebolisce nei rapporti internazionali e che penalizza gli italiani, perché governi che durano così poco non hanno una visione di lungo periodo, ma cercano solo il facile consenso nell’immediato. Anche per questo da decenni l’Italia cresce meno della media europea. L’instabilità politica è anche uno dei principali fattori del nostro declino economico. Assicurare governi stabili, grazie al presidenzialismo, non è una misura astratta: è la più potente misura economica di cui necessita l’Italia.

Come ho già scritto, questa mi pare una fallacia: siamo sicuri che la relativa inamovibilità di un esecutivo sia condizione necessaria e sufficiente al conseguimento della crescita economica? Ovviamente, no. Estremizzando, le dittature dovrebbero avere dei risultati economici stellari. Battute (ma non troppo) a parte, questa riforma mi pare la naturale conseguenza dei traumi vissuti dal centrodestra negli ultimi vent’anni, anzi quasi trenta.

Programmi devianti rispetto a quanto i mercati si aspettano da un paese ad alto debito e crescita inesistente, crisi economica che diventa crisi di sistema, implosione della velleitaria maggioranza, intervento del presidente della Repubblica che, lungi dall’essere un “notaio”, ha invece in sé il potere di risolvere lo stallo senza rinviare il paese alle urne, e nomina di un “tecnico” che rassicuri mercati e interlocutori, costringendo i riottosi partiti a stare fermi un giro, concedendogli la fiducia parlamentare.

Quando il “tecnico” rimette il paese sui binari di una effimera normalità, i partiti si rianimano e lo abbattono, e si riparte. Certo, si potrebbe dire che un siffatto paese è pura patologia ma io non sto difendendo questo sistema, mi limito a descriverlo. Ai partiti (soprattutto se di destra, centrodestra, destra-centro) che vengono così dolorosamente espulsi dalla stanza dei bottoni non resta che rifugiarsi nel cospirazionismo: sono stati i poteri forti, il Quirinale cripto-golpista, i senatori a vita, le macchie solari di sinistra eccetera.

Ecco, quindi, che questa riforma nasce per neutralizzare il rischio che gli odiati vincoli di realtà ripropongano i “ribaltoni”: si colpisce tutto quello che in passato ha causato la caduta di siffatti governi, presentando la riforma come necessaria per conseguire la crescita economica, che qualche sempliciotto vorrebbe legata solo alla anzianità in carica di un governo. Bello sarebbe, se fosse vero.

Non sono un costituzionalista, leggo con interesse le analisi di quest’ultimi sul progetto di riforma. Sono un cittadino, contribuente ed elettore, quindi mi preparo in caso la riforma non avesse il sostegno dei due terzi delle Camere e si giungesse al referendum confermativo. Ma alcuni punti della bozza posso commentarli sulla base di considerazioni generiche sui sistemi di incentivi e sulle azioni e reazioni umane a tali incentivi. Posso? Direi di sì.

IL PROGRAMMA, COSTI QUEL CHE COSTI

Ad esempio, mi pare che la riforma attenui la natura parlamentare del sistema italiano. Nel senso che impedisce che le maggioranze si formino più o meno liberamente nelle camere. Qui sono laico, nel senso che se ne può discutere. Ma questo riferimento ossessivo al “programma”, che poi sarebbe “il contratto con gli italiani” di berlusconiana memoria, mi pare un po’ rigido, come approccio.

In un quinquennio di legislatura possono accadere moltissime cose, tali da costringere a deviare dal libro dei sogni di campagna elettorale. Di certo, di fronte a cambiamenti e shock esterni tali da richiedere di cambiare condotte rispetto a quanto promesso, a poco e nulla varrebbe la giustificazione che a tali shock esterni deve rispondere solo la maggioranza che ha eletto il premier, un’era geologica addietro.

Poi, il premierato italiano è sui generis, nel senso che non è importato da modelli esteri. Per un paese che soffre di sovrano provincialismo e passa il tempo a strepitare “facciamo come”, inserendo a caso nomi di altri paesi, pare un passo avanti sulla strada dell’originalità. Ma attenzione alla fallacia: se un modello non esiste da nessun’altra parte, potrebbe essere a causa della sua inapplicabilità alla realtà e di sue intrinseche assurdità. Si può essere originali anche in questo modo onirico e disfunzionale.

In Germania c’è il premierato, un presidente notaio (vero, a differenza che in Italia) ma anche la sfiducia costruttiva, a rimarcare il ruolo del parlamento. Solo per fare un esempio tagliato grosso. Nella versione italiana del premierato, l’unto dal popolo non sarebbe onnipotente, nel senso che il capo dello stato continuerebbe a nominare i ministri “su proposta” del presidente del consiglio. Il parlamentarismo è preservato come simulacro, nel senso che il premier deve ricevere la fiducia di entrambe le camere. Si dirà che sono aspetti minori, ma a volte dietro gli aspetti minori si celano problemi maggiori.

Il premier italiano post riforma non può inoltre rimuovere i ministri, si deve comunque passare attraverso la sfiducia individuale. Qualche malizioso potrebbe commentare che, in tal modo, i partiti della coalizione preservano il proprio robusto potere di interdizione. Meglio così, dirà qualcuno: meglio un premier irrobustito “quanto basta” che un premier quasi dittatore. Sì ma allora cosa riformiamo a fare se alla fine restano i colpi di palazzo, pur se confinati alla maggioranza?

ZUFFE IN COALIZIONE

Piuttosto surreale è la parte relativa al “secondo premier”, quello che subentra al primo dopo una crisi. Costui deve essere un parlamentare di maggioranza, dedito a perseguire il mitologico programma premiato nelle urne. E quindi, che cambierebbe? Nulla, anzi una cosa: che il premier unto ed eletto dal popolo sovrano sarebbe sotto potenziale ricatto della propria maggioranza. Se non funziona neppure il secondo premier, che sulla carta sembra più forte del primo perché la maggioranza dei tacchini parlamentari tenterà comunque di evitare di anticipare il Natale, cioè lo scioglimento delle camere, si torna alle urne.

Ma che accadrebbe, in quel caso? Che gli ex coalizzati tornerebbero uniti d’amore e d’accordo presentandosi agli elettori sovrani nella stessa coesa squadra che si è scannata fino a poco tempo prima? Sembrano i pentapartiti della Prima Repubblica: vota che ti rivota, cambiano le sedie e qualche nome, e si riparte. Ma erano altri tempi: c’era il “Fattore K“, nel senso che il Pci non doveva andare al governo e si faceva di necessità virtù, entro un sistema parlamentare ma dominato dalle segreterie dei partiti. Le coalizioni non nascevano prima del voto ma gli elettori erano rassegnati a vederle tornare, al massimo con qualche zerovirgola di differenza tra partiti, giusto per legittimare qualche strapuntino in più in Rai e controllate pubbliche.

E la legge elettorale? Sappiamo che quella può cambiare per via ordinaria, e che negli ultimi lustri è spesso cambiata per volontà di maggioranze pro tempore che si illudevano di cambiare le regole del gioco per restare in sella, per poi essere schiaffeggiate alla prima elezione utile. Ma ora c’è un problema in più, in questa riforma: la legge elettorale resta ordinaria ma in costituzione finisce il premio di maggioranza, pari al 55% dei seggi alla coalizione vincente.

Sì, ma vincente come e con quanto? Possibile dare il 55% dei seggi a un partito o lista che, in un quadro frammentato, ottenesse il primo posto con magari il 25% dei suffragi? La Consulta ha già detto che non è possibile, per fortuna. Quindi servirà capire che fare.

La bozza è assai grezza, i pochi articoli di cui si compone non indicano tanto una volontà di semplificare quanto quella di evitare campi minati. Sui quali si finirà comunque. E non è che “il meglio sia nemico del bene”, come già so che qualche filosofo di questa coalizione vi dirà. Ad esempio, resta il bicameralismo perfetto, che mi pare un filo incoerente nel momento in cui questa maggioranza sogna di approvare l’autonomia regionale differenziata. Forse le due cose possono coesistere, forse è tutto un gioco di specchi e fumo.

Mi fermerei qui, per ora. Quello che voglio rimarcare è che questa riforma, scritta così, poggia su una enorme fallacia: quella di credere che la durata dei governi sia in rapporto causale diretto con la crescita economica. Quella è forse condizione necessaria (o neppure quello: citofonare Giappone), ma di certo non sufficiente. Questa riforma poggia come detto su una grande paranoia: quella di pensare di depotenziare tutte le figure e le istituzioni che, in passato, hanno risolto crisi di sistema causate da maggioranze di sognatori tossico-nocivi per il paese. Sotto questo aspetto, è parente dell’altra levata d’ingegno dell’abolizione del divieto del vincolo di mandato.

IO SONO GIORGIA, DA QUI NON MI SCHIODO

Per evitare il referendum confermativo servono una trentina di voti extra maggioranza alla Camera e una ventina al Senato. Difficile ma non impossibile ottenerli: ad esempio, Matteo Renzi potrebbe concedere quelli del suo partito (comunque insufficienti), in cambio di riscritture della riforma che vadano verso il concetto di “sindaco d’Italia”. Che tuttavia non piace a molti, nell’attuale maggioranza.

Se si giungesse al referendum confermativo, l’astuta Meloni ha già detto che un’eventuale sconfitta la lascerebbe imperturbata a Chigi, cioè non farebbe la fine di Renzi. Che però è un po’ come dire: ho un programma, avete votato quel programma, mi avete bocciato su un punto qualificante di quel programma ma me ne frego. Ma, assai prima di quel giorno, Meloni avrà ben altri e tangibili problemi da affrontare. E non mi sentirei di scommettere che li supererà indenne.

Però, lo sapete: siamo italiani, abbiamo un dono nel creare diversivi e fondali teatrali. Deve essere la nostra inimitabile fantasia, o forse la nostra atavica superstizione. Non è vero ma ci crediamo. Anzi, ce lo fanno credere. Non è vero che dalla forma di governo e dalla legge elettorale possano nascere governi senzienti e crescita economica, se il mainstream culturale di un paese è profondamente disfunzionale, ma ci crediamo. Anzi, ce lo fanno credere. Un peccato che la realtà sia e resti irriformabile. Inclusa la realtà di un paese come questo, fatta di illusori non sequitur.

P.S. Ho ascoltato nei giorni scorsi un commento che diceva, più o meno: con questa riforma, non avremmo avuto i governi Monti e Draghi. Non so se sorridere o disperarmi. A voi capire per quali motivi. Un aiutino: i governi “tecnici” sono un’anomalia, un paese deve affrontare le conseguenze delle proprie decisioni e volontà. Sino in fondo. E poi, per supremo sberleffo della solita realtà, hai visto mai che coalizioni disperate e impotenti saranno costrette a candidare premier il prossimo super tecnico salvatore della patria? Si scherza, ovviamente. Forse.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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