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Più che creato, sintropico

Nel XVII° secolo, il filosofo e matematico Gottfried Wilhelm Leibniz, poneva un quesito:”Perché esiste qualcosa anziché niente?”. La cruciale importanza di quell'interrogativo, si ripropone attualmente corroborata da altre due domande: “Come si sia evoluto l'Universo”, e “Perché ci sia un Universo”.

Fino a non molto tempo fa, si era stabilita una sorta di tacita convenzione, la quale affidava alla scienza il compito di investigare “come” si verifichino le fenomenologie fisiche e alle religioni quello di individuarne il “perché”. Per fortuna, oggi è caduta questa surrettizia dicotomia, dal momento che le conoscenze scientifiche nel frattempo acquisite consentono ormai di penetrare nella più intima essenza di ciascun evento fisico. Quella barriera oggi si è infranta. Lo stesso astrofisico Stephen Hawking, si è premurato di ricordarlo, ribadendo che: “La filosofia è morta, non essendosi dimostrata capace di adeguarsi allo sviluppo della scienza moderna e della fisica più in particolare”.

La sua quanto mai opportuna sortita non ha mancato di suscitare, come era del resto attendibile, una generale levata di scudi da parte delle diverse religioni. Secondo lui, e non solo secondo lui, l'Universo, o meglio ancora gli Universi, per poter esistere, non richiedono l'intervento di un creatore, dal momento che le Leggi della Gravitazione e quelle della Fisica Quantistica forniscono un modello di Universo che sono capaci di autoplasmare.

Al fine di rendere meno ostico l'argomento, è bene stabilire alcune premesse. In primo luogo, val la pena ricordare che l'uomo, al pari degli altri organismi viventi, sia spontaneamente portato alla curiosità. Nel suo caso, però, ricorre una singolare indiscrezione, la quale muove da un impulso interiore suscettibile di porgli molteplici quesiti. Nonostante il suo invero breve ciclo vitale, il quale gli consente di sperimentare una infima porzione dell'Universo che lo ospita, l'uomo è sistematicamente assillato da inquietanti interrogativi. Questo, nonostante la sua ineluttabile ventura lo condanni a rimanere segregato in una angusta porzione del mondo, la quale gli si offre di volta in volta accogliente o crudele.

Da sempre l'uomo rivolge il suo sguardo verso l'alto. Verso il cielo. Lo fà ponendosi una serie di angoscianti domande: si interroga sulla natura dell'Universo al quale appartiene, come sulla natura della realtà percepita come tale, adottando di volta in volta gli strumenti disponibili nell'intento di meglio intelligere l'ambiente in cui vive. Alcune di queste domande lo turbano maggiormente, per cui se le ripropone sistematicamente. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? L'Universo, avrà avuto bisogno dell'intervento di un creatore? Trattasi indubbiamente di interrogativi di fondamentale importanza, i quali finiscono con l'ingombrare prima o poi la mente di ciascuno di noi.

Assumendo il più classico concetto dell'Universo, le eterogenee morfologie fisiche rispettano singolari dinamiche in funzione di determinate connotazioni evolutive, disegnando traiettorie talmente ben definite da consentirne la determinazione dei rispettivi momenti topografici.

All'inizio del secolo scorso, i fisici si resero però conto del fatto che quella classica immagine attribuita ai fenomeni naturali, non era in grado di soddisfare la comprensione di singolari dinamiche virtualmente estranee all'ordinario e peculiari del mondo subatomico. Nell'intento di apportare i necessari chiarimenti, si rendeva perciò doveroso adottare un diverso paradigma: quello della Fisica Quantistica, le cui teorie si dimostrarono ben presto adeguate a soddisfare quella esigenza. Lo fecero a tal punto da consentire a David Bohm di formulare il ricorso di due distinti ordini fisici: quello “esplicato”, nel quale si svolge la nostra esperienza macroscopica, e quello “implicato”, inerente invece i fenomeni subatomici. Per questo, la fisica classica e la fisica quantistica si occupano di concetti radicalmente differenti in relazione con il mondo fisico.

Dobbiamo al matematico Laplace l'introduzione del concetto del “determinismo scientifico”, secondo il quale, conoscendo lo stato dell'Universo in un determinato momento, è possibile non soltanto ripercorrerne il passato, ma anche prevederne il futuro. Questo, dal momento che tutto si compie nel rispetto di precise Leggi fisiche. Escludendo così ogni possibile intervento divino. Si racconta in proposito che Napoleone, avendo domandato a Laplace quale fosse il ruolo di Dio nel suo modello del mondo, ricevette questa risposta: “Sire, non ho affatto bisogno di questa ipotesi”.

Quale componente di un sistema fisico complesso, l'uomo interagisce sistematicamente con il restante Universo. Pertanto, anche nel suo caso, ricorre il determinismo scientifico. Ciò nonostante, esistono ancora coloro che vorrebbero far ricorrere al riguardo una inspiegabile eccezione, invocando l'intervento dell'ormai trito “libero arbitrio”.

Adottando questa fallace ottica, Cartesio si avventurò nel sostenere che la natura umana differisse dal restante mondo fisico e si svincolasse dalle sue Leggi. Secondo lui, ciascun essere umano ricapitolerebbe due distinte componenti: il corpo e l'anima. Con la differenza che, mentre il primo scadrebbe in una macchina ordinaria, la seconda esulerebbe dal rigore delle Leggi scientifiche. Al riguardo, egli si esprimeva nei termini, rispettivamente, di “res extensa” e di “res cogitans”. Ingannato da quell'artifizio, Cartesio giunse addirittura a pretendere di aver individuato la sede anatomica dell'”anima”, identificandola in una ghiandola cerebrale conosciuta come “pineale”.

Al di là di questa avvenente aneddotica, la vera domanda da porsi è un'altra: “L'uomo possiede veramente il libero arbitrio?” Qualora la risposta fosse affermativa, essa evocherebbe un altro quesito: “Quando esso è comparso nell'iter evolutivo?” Le alghe verdi o i batteri, per esempio, possono contare sul libero arbitrio? O è il caso di ipotizzare che nell'evenienza siano coinvolti soltanto meri riflessi automatici completamente governati dalle Leggi scientifiche? Ma non basta. Perché bisogna ancora domandarsi: “Il libero arbitrio è appannaggio di tutti gli organismi pluricellulari o costituisce una prerogativa dei mammiferi?” Potrebbe apparire sensato riconoscere il libero arbitrio allo scimpanzè nel momento in cui decide di cogliere una banana? O nel caso di Jambi, la mia gattina domestica, quando decide di graffiare la stoffa del divano? E cosa pensare del comportamento del nematode Caernorhabditis elegans, un rudimentale organismo composto da appena 959 cellule?

Nel momento in cui decidiamo di compiere una determinata azione, le relative indagini molecolari attestano che tutti i processi biologici siano sempre e comunque governati dalle medesime Leggi fisico-chimiche, che sono poi le stesse che regolano ogni fenomeno cosmico.



Appositi studi di natura neurofisiologica, documentano che l'elaborazione di un determinato pensiero attivi specifiche aree cerebrali, ottemperando a precise Leggi scientifiche e non in virtù di chissà quali misteriosi influssi. Un altro studio, condotto su pazienti reduci da interventi chirurgici cerebrali e in stato di coscienza, ha dimostrato la possibilità di evocare sensazioni eterogenee, come per esempio quella della privazione di una mano o di un braccio o di un piede o di articolare le labbra per parlare. Pare difficile invocare in siffatte circostanze l'intervento del libero arbitrio, che viene così a scadere a semplice illusione.

Non sembra marginale a questo punto introdurre una ulteriore e significativa considerazione. Circa 65 milioni di anni fa, un meteorite precipitò sulla penisola dello Yucatan, nel Messico. Il suo diametro misurava quasi 20 chilometri. Quello straordinario evento sollevò nell'atmosfera una tale quantità di pulviscolo da oscurare la luce del sole, producendo così una glaciazione tale da condurre all'estinzione i grandi rettili che fino ad allora avevano dominato il pianeta. La loro scomparsa dipese dalla incapacità di possedere un processo di termoregolazione in grado di consentirgli l'adattamento alle mutate condizioni ambientali. Invece, i piccoli mammiferi, che possedevano tale meccanismo protettivo, rifugiatisi negli anfratti guadagnati per sottrarsi alla predazione dei dinosauri, uscirono all'aperto iniziando così un diverso processo evolutivo.

E' a questo punto fondamentale precisare che, qualora il meteorite non fosse precipitato sulla terra, la stessa sarebbe rimasta ancora abitata dai grandi rettili, impedendo così l'avvio della evoluzione dei mammiferi, la quale esitò quindi nella comparsa dei primati, nel cui ambito si produsse, successivamente, una cruciale dicotomia: le scimmie e gli australopitechi, da cui discesero nell'ordine l'homo abilis, l'homo erectus e l'homo sapiens. Dal che si desume che la specie umana sia comparsa per un processo di pura casualità. Infatti, senza la caduta di quel meteorite, ora non saremmo qui a discutere di questi argomenti.

Per aggirare in qualche modo questa cruda considerazione, i teologi hanno sostenuto il ricorso della mano di Dio dietro quel meteorite, proprio al fine di spazzare via i grossi rettili in favore dell'uomo. Accettando questa ipotesi, si dovrebbe concludere che l'evoluzione biologica sarebbe finalizzata. Ma questo non è vero. E' antiscientifico! Così come non sanno spiegare quando, durante l'iter evolutivo dall'australopiteco all'homo sarebbe comparsa l'”anima immortale”.

Sembra che nel 2036 un altro meteorite colpirà la terra. Le sue conseguenze dovrebbero essere di gran lunga peggiori del precedente. Si teme che esso potrebbe cancellare la vita sul pianeta. A questo punto, si impone una considerazione: ma se la vita sulla terra è il frutto della casualità, perché altrettanto casualmente essa non potrebbe scomparire? Pare che ci sia interdetto uscire dal sistema solare. Siamo perciò chiusi dentro una sorta di prigione senza senso e senza certezze. Riflettendo su ciò, gli uomini dovrebbero smetterla di distruggersi per ambizione, per denaro e per potere. Il meteorite serve a ricordare la mancanza di senso della vita e di tutto quello a cui essi danno importanza. In proposito, sicuramente suonano appropriate le parole scritte da Peter Wessel Zapffe nella sua opera “Sul Tragico”: “La fine dell'umanità non sarebbe una tragedia, ma la fine di una tragedia”.

A conferire un criterio di compiuta organicità alle diverse teorie quantistiche, ha indubbiamente contribuito in maniera determinante Richard Feynman. Grazie ai suoi studi, è stato possibile stabilire che ciascun sistema fisico non disponga di un'unica dinamica, ma di più dinamiche possibili. Al fine di poter soddisfare più compiutamente le questioni anzi poste, è opportuno adottare l'approccio da lui postulato. Il che appare necessario per poter meglio comprendere perché l'Universo non disponga di una sola e unica storia, né goda parimenti di una propria autonoma esistenza.

Attualmente disponiamo della cosiddetta Teoria Ultima del Tutto, conosciuta anche come “M-Teoria”, la quale sfata il mito della creazione così come esso ci viene tramandato dalle religioni. Secondo questa teoria, il nostro Universo non soltanto non è il solo apprezzabile, ma ne esistono molti altri, creati tutti dal...niente! Senza cioè che la loro comparsa invochi un qualsivoglia intervento soprannaturale o comunque divino. Questi Universi multipli sono il frutto delle Leggi della fisica. Ciascuno di essi possiede numerose storie possibili e può conoscere un elevato numero di stati differenti assunti dopo la sua creazione. Il più delle volte, tali difformi situazioni possono non somigliare all'Universo che conosciamo e non ospitare forme viventi. Solo alcuni di essi stabiliscono le condizioni ideali per poter ospitare forme di vita simili alla nostra. Ne deriva che il presente altro non sia che la risultante della selezione di tutti questi Universi compatibili con la nostra esistenza.

Un'altra non trascurabile questione la pone l'origine dei tempi. A essa si riconduce anche il problema della fine del mondo. Quando l'uomo riteneva ancora che il mondo fosse piatto, qualcuno si domandò se il mare cadesse oltrepassandone il bordo. L'esperienza ha consentito di soddisfare esaustivamente questa domanda. Essa ha dimostrato la possibilità di fare il giro del mondo senza per questo cadere. La questione inerente il bordo del mondo, si è dissolta scoprendo la rotondità della terra: cioè rendendosi conto che essa rappresenti una superficie curva.

Sovente si sente paragonare il tempo con una ferrovia. Se esso ha un inizio, vuol dire che qualcuno, per comodità o per opportunismo, magari chiamato Dio, dovrà pur far partire i treni. Così si vedono le cose “sub specie temporis”. Cioè, secondo uno schema mentale e un pensiero lineari. Questo, anche dopo la formulazione della Teoria della Relatività Generale, la quale unificò lo spazio e il tempo in un'unica entità denominata “spazio-tempo”. Pur tuttavia, il tempo ha seguitato a essere tenuto distinto dallo spazio: sia che avesse avuto un inizio, sia che esistesse da sempre. Quando, inserendo gli elementi quantistici nella Teoria della Relatività, succede che, in determinate condizioni, la curvatura possa accentuarsi a tal punto da indurre il tempo a comportarsi come una supplementare dimensione dello spazio.

Ora sappiamo che l'Universo primordiale era talmente concentrato da essere governato dalla Relatività Generale. Allora, la fisica quantistica esprimeva quattro dimensioni dello spazio e nessuna del tempo. Il che vuol dire che parlando dell'”inizio” dell'Universo, eludiamo abilmente un importante problema: che, nei primi istanti della sua vita, tanto il tempo quanto lo spazio così come li conosciamo, non esistevano! Infatti, l'ordinaria concezione dello spazio e del tempo, non si applica all'Universo primordiale. Questo sfugge alle ordinarie considerazioni, ma non alla nostra immaginazione, e, ancor meno, alla matematica. Ne deriva che, se nel nascente Universo le quattro dimensioni si comportino come dimensioni dello spazio, cosa succede all'inizio dei tempi? Combinando la Relatività Generale con la Fisica Quantistica, la questione relativa a cosa ci fosse prima dell'inizio dell'Universo, non ha più senso. Questo concetto, compendiantesi nel considerare le possibili tendenze evolutive come altrettante superfici chiuse senza frontiere, reca il nome di “Condizione senza Limite”.

Nel corso dei secoli, alcuni filosofi greci avevano creduto che l'Universo fosse stato presente da sempre. Evitando così di affrontare lo scoglio della sua creazione; altrimenti, ipotizzandone un inizio, si sarebbe sfruttato questo argomento per provare l'esistenza di Dio. Invece, è fondamentale aver ben presente il comportamento del tempo che è analogo a quello dello spazio. Ciò, nell'intento di poter formulare una valida ipotesi alternativa, la quale invoca il ricorso delle Leggi della fisica nella spiegazione di una creazione avulsa da ogni ipotetico intervento divino.

Possiamo a questo punto concludere queste riflessioni, ricordando che, come già sosteneva trenta anni fa il premio Nobel per la fisica Weinberg, più l'Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo. Richiamandoci a Lorenz, ricordiamo che si apre la strada all'idea che se l'uomo fosse sin dall'inizio dei tempi la meta prestabilita di ogni naturale evoluzione, esso diventerebbe l'ottuso paradigma della sinistra sicumera che ne anticipa la caduta, poiché, se si dovesse credere in un Dio onnipotente che avesse scientemente creato l'uomo così come lo conosciamo, allora bisognerebbe davvero dubitarne, avendo sempre bene in mente quanto puntualizzato da Baruch Spinoza (Trattato dei tre impostori, II, 8): “Se invece di rimettersi alla propria immaginazione, si consultassero i lumi dell'intelletto e la matematica, e non si superassero i limiti di ciò che si arriva a concepire con l'aiuto dei lumi naturali, tutti converrebbero della verità, e i giudizi sarebbero più unanimi e più ragionevoli di quel che sono”.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.179) 27 giugno 2012 22:56

    La lunga, argomentata e documentata,deduzione del primato della scienza, accompagnata dai suoi corollari : autonomia e onnicomprensività, corre il pericolo dello scientismo, cioè della rivendicazione della indiscutibile verità della scienza. Sappiamo bene che il primo requisito della scienza, secondo rigorosi canoni epistemologici, è quello della fallibillità, che tradotto significa relatività della conoscenza scientifica. Seguendo questi parametri è stata dismessa la lunga querelle tra scienza e fede, riconoscendo a ciascuna di esse la sua autonomia assieme alle sue prerogative.

  • Di (---.---.---.175) 28 giugno 2012 08:21

    Vedo scritto XVII con l’apice (°) e dubito, così, dell’intero articolo.

  • Di Piero Tucceri (---.---.---.254) 28 giugno 2012 09:22

    Gentile sig. 179, scienza e filosofia sono storicamente legate a una comune radice teoretica, così che, fino alle soglie dell’Era Moderna, esse erano considerate pressoché identiche. La loro separazione è avvenuta nel momento in cui è sorta la necessità di precisare, in conformità con fini conoscitivi, la natura del legame che consenta di connettere l’esperienza con il logos: la filosofia, mirando a una istanza conoscitiva di totalità e assolutezza, richiede che la spiegazione avvenga attraverso il nesso di conseguenza logica, mentre la scienza, mirando a istanze conoscitive più circoscritte, s’accontenta del nesso di ragion sufficiente. Questo ha prodotto una frattura ben più profonda di quanto potrebbe sembrare: infatti, la filosofia si è sempre più trasformata in un apparato formale dove le sue proposizioni trovano giustificazione nella sua stessa struttura logica, la sua verità è "verificata" all’interno del sistema; la scienza cerca verifiche all’esterno e tende ad abbandonare la sfera noetica della conoscenza per quella pratica dell’utilità tecnologica. Inoltre, il rapporto fra scienza e fede è stato già ben definito dagli studi matematici di Godel e Arrow, tanto per citare due esempi, ai quali non io, ma la comunità scientifica, ha assegnato il Nobel quando questo riconoscimento valeva ancora qualcosa, oltre che dalla soluzione del X°(tanto per non smentire la futile capziosità del mio successivo "interlocutore") Problema di Hilbert da parte di Mattjasevich.

    Riguardo l’altro interlocutore, il sig. 175, mi limito semplicemente a rilevare che la sua futilità ( dovrei esprimermi diversamente, ma me ne astengo) non la considero assolutamente.

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