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Pisa, licenziamenti all’IKEA

Il diritto al lavoro negato con la scusa delle norme contrattualistiche vigenti. Questo è il magro dito dietro cui si nasconde lo store IKEA di Pisa. Il peccato originale del colosso svedese è stato l’utilizzo di contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato già dalla sua apertura.

 

A partire da marzo, infatti, 25 giovani sono stati integrati in vari reparti, tra cui la logistica, con questa forma contrattuale. Contratti di un mese, rinnovabili a discrezione dell’utilizzatore.

Gli ingenti arrivi di merci, i fatturati da capogiro, le ferie richieste durante l’estate dai lavoratori con contratto diretto, hanno reso indispensabile l’apporto di questi lavoratori “interinali” nel quotidiano svolgimento delle mansioni. Queste condizioni di “picco” permangono tutt’oggi e, nonostante ciò, undici lavoratori della logistica non hanno avuto un rinnovo contrattuale. Una scure che è arrivata tre giorni prima della scadenza del contratto sulla testa degli “interinali”, nonostante un mese fa fosse stato preventivato dai dirigenti un trend positivo di vendite tra ottobre e dicembre, rendendo perciò ancora necessario l’apporto dei lavoratori con contratto indiretto.

Lo scarsissimo preavviso, la promessa di un eventuale reintegro in tempi futuri con contratto diretto, ha neutralizzato ogni azione concertata di protesta all’interno dello store. La falsa speranza di riassunzione usata come grimaldello per smantellare eventuali velleità di dissenso. L’ipotesi del reintegro con contratto diretto rimane assai lontana e la parola di IKEA in questo frangente vale meno delle loro matite, in quanto nel corso degli ultimi sei mesi sono state aperte più volte le candidature spontanee a cui i ragazzi e le ragazze della logistica avevano partecipato, salvo poi vedere che la preferenza del marchio svedese cadeva su lavoratori che non avevano mai avuto alcun rapporto di lavoro con IKEA. L’esperienza maturata dagli interinali quindi non ha mai rappresentato per i selettori delle risorse umane una competenza in più da valutare per eventuali nuove assunzioni, ma semmai uno stigma.

Il germe della diversità di trattamento tra lavoratori interinali e lavoratori interni IKEA ha un’origine antica, che risale già alla fase di formazione: per gli assunti attraverso contratto di somministrazione a tempo era previsto un corso sommario, di appena tre giorni, in cui i lavoratori erano messi a conoscenza delle norme di sicurezza e dei valori IKEA. Di questi tre giorni solo uno dedicato all’apprendimento pratico dei compiti da svolgere tra magazzino e l’area “negozio”. I lavoratori IKEA avevano invece svolto un training di mesi, presso altri punti vendita.

La disparità di trattamento tra lavoratori diretti e indiretti avveniva ancora attraverso un differente livello di produttività: gli interinali erano come nuotatori con un braccio solo che dovevano tenere il passo di nuotatori con due braccia. Il braccio in più è un terminale, chiamato RDT, che permette di accedere rapidamente ad informazioni tecniche necessarie per lo svolgimento dei lavori di riempimento negozio e stockaggio della merce. Questo strumento è stato sempre negato ai lavoratori interinali, rendendo perciò le mansioni quotidiane un percorso ad ostacoli, dove l’arte di arrangiarsi e improvvisare era la discriminante tra fare tanto in poco tempo o rimanere al palo.

L’uso di questi tools permetteva ad alcuni lavoratori con contratto diretto di avere un comportamento da “campieri” verso gli interinali. Dettavano tempi, priorità, compiti. Una linea di comando costruita non su una leadership riconosciuta collettivamente, ma semplicemente dettata dal possesso di un terminale.

Nessuno tra i lavoratori con contratto indiretto è stato mai messo nelle condizioni di conoscere l’andamento dell’azienda, di conoscere le basilari informazioni di programmazione economica, di capire esattamente quale fosse il loro ruolo all’interno di quella complessa filiera che va dall’ordinazione della merce alla sua vendita finale sino al servizio di customer care. L’alienazione quotidiana è corsa sul filo della formazione negata, della deresponsabilizzazione, della ripetizione dei medesimi compiti, dell’impossibilità di costruire un percorso “personale” all’interno dell’azienda.

Nei 25 anni in cui IKEA è stata presente in Italia ha raccontato ai lavoratori interni e ai clienti la medesima favola aziendale: una realtà attenta alle sue risorse umane, con uno scrupoloso senso di responsabilità, capace di dare voce al “pensiero differente”, e promotrice della collaborazione tra coworkers a tutti i livelli dell’organizzazione. La verità è che il marchio IKEA possiede dei valori in linea con gli stessi mobili che vende: superfici impiallacciate fuori e volgare truciolato dentro. Una solidità costruita solo su un’immagine artificiale, che può e deve essere smentita e smantellata. Il loro ricorso alle oscenità permesse dalla contrattualistica vigente in Italia non rende gli store IKEA spettatori passivi di questo tempo, ma semmai diretti complici della carneficina generazionale a cui stiamo assistendo ormai da oltre dieci anni. Lo “spazio al cambiamento” che l’azienda usa come slogan sarà la stessa parola d’ordine che ci vedrà uniti nella contestazione di questo modello produttivo, permettendo così a quanta più gente possibile di poter allargare lo sguardo nella distanza tra messaggio e realtà, tra decaloghi aziendali e trattamento effettivo della manodopera.

Seguiranno nei prossimi giorni nuovi aggiornamenti.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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