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Passi in avanti, ma la fame resta il più grande killer del mondo

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di Marco Boscolo

Nonostante tutti gli sforzi delle istituzioni internazionali, tra programmi di aiuti, Millennium Goals delle Nazioni Unite e gli indubitabili avanzamenti scientifici che hanno migliorato la capacità produttiva, ancora oggi 805 milioni di persone nel mondo soffrono la fame. Lo attesta il nuovo e recentissimo rapporto della FAO sull’insicurezza alimentare, che è comunque moderatamente ottimista, dal momento che dieci anni fa gli affamati erano oltre 900 milioni.

“Non c’è una volontà politica abbastanza forte per decidere di vincere definitivamente la sfida dell’eradicazione della fame”: Shivaji Pandey, direttore del Dipartimento di Produzione Vegetale della FAO, lo dice senza un secondo di esitazione quando gli chiediamo perché l’obiettivo non è ancora stato raggiungo. E lo ha detto chiaramente anche durante il suo intervento a The Future Of Science, la conferenza organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi che da dieci anni si tiene alla Fondazione Cini sull’Isola di San Giorgio a Venezia.

Il titolo di questa edizione è emblematico, “The eradication of hunger”, e pone la grande discussione sul cibo che si sta sviluppando in Italia in vista di Expo sotto la prospettiva più urgente: riempire le pance di tutti gli abitanti del pianeta oggi e nel 2050, quanto le previsioni danno una popolazione mondiale attorno ai 9 miliardi. Il rapporto FAO uscito in questi giorni mette in luce i risultati positivi: 63 Paesi hanno raggiunto l’obiettivo di eliminare la fame entro il 2015 come parte dell’impegno richiesto dalla sottoscrizione dei Millennium Goals. Se chiedete a Shivaji Pandey qual è stato il principale fattore che ha permesso questo miglioramento, vi darà la stessa risposta che ci ha dato alla domanda precedente: “political will”, volontà politica. Dopo aver costruito una carriera studiando il mais e le risorse genetiche nascoste nelle banche dei semi sparse per il mondo, si è convinto che anche avendo la migliore tecnologia del mondo a disposizione, magari anche a costi ragionevoli, se non c’è una precisa volontà da parte dei governi di metterla in pratica i risultati non verranno.

Che non si tratta solo di un problema di risorse e tecnologia c’è la conferma che arriva anche dall’economia. Giovanni Fattore, economista dell’Università Bocconi di Milano che si occupa di settore pubblico e sanità, nel suo intervento a The Future Of Science ha sottolineato come “il problema siano la distribuzione e la ridistribuzione” delle risorse. Viviamo in un’epoca in cui “abbiamo la disponibilità teorica” per sfare tutti, ma ciò nonostante i numeri sono sempre quelli che mostra il report FAO. Si fronteggiano, in economia, diverse posizioni, tra chi è più incline a continuare in una direzione di aiuti diretti per lo sviluppo non solo in caso di emergenza umanitaria, e chi invece pensa che la via di uscita sia una maggiore libertà di ricerca di uno sviluppo autonomo di ogni singolo paese. Comunque la si pensi, non c’è dubbio che la soluzione per eliminare la fame passa sempre per la stessa strada: far uscire il maggior numero di paesi dalla “trappola della povertà”, quella condizione in cui non hai le risorse per fare niente. E in questo senso, che il danaro arrivi dagli aiuti dei programmi internazionali o dal libero mercato poco importa.

Non bisogna però farsi affascinare dall’idea che sfamare i 9 miliardi previsti nel 2050 sia un problema che prescinde dalle capacità produttive e da quelle tecniche. C’è necessità, comunque, di incrementare la produzione a ritmo sostenibile. E per farlo non bisogna tralasciare di sfruttare tutte le risorse a disposizione. Pandey, per esempio, è convinto che ricavare il 60% delle calorie che consumiamo a livello mondiale da sole tre piante – riso, frumento e mais – non sia troppo furbo. “Nel corso della storia l’uomo ha utilizzato oltre 700 diverse specie di piante per scopi alimentari”, racconta. E a queste si possono aggiungere le enormi riserve di biodiversità che si sono raccolte nei “7 milioni di collezioni distribuite nelle 1750 banche dei geni che esistono”.

E, ci racconta, nell’Anno Mondiale dell’agricoltura famigliare voluto dalla FAO, bisogna pensare che i contadini con piccoli appezzamenti di terra sono “parte della soluzione e non parte del problema”. Basta pensare che nei paesi più poveri del mondo, dove vive la maggioranza degli affamati, “il 75% degli abitanti dipende dall’agricoltura per la propria sopravvivenza”. Milioni di persone che non hanno accesso al mercato come lo intendiamo visto da qui e che se messe in condizione di produrre di più e meglio possono essere la chiave di volta nella lotta alla fame. Ma “dobbiamo sconfiggere l’avidità”, conclude. Quella che fa sì che i proprietari di molte delle collezioni genetiche del mondo non condividano il proprio patrimonio con l’idea che “dare gratis oggi, significa che in futuro non avrò la possibilità di vendere”. Per non parlare della rigidità in questo senso del settore privato. “Non era così negli anni Settanta, quando la Rivoluzione Verde ha preso piede: da allora si condivide sempre meno”. Il prossimo anno si ridiscutono gli obiettivi delle Nazioni Unite, a 15 anni dall’inizio del programma dei Millennium Goals: vedremo se ci saranno meno avidi del solito seduti a quel tavolo.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia
Crediti immagine: Charles Knowles, Flickr

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