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Pannella, un vecchio vizio. Dalla sinistra radicale all’alleanza con l’estrema destra

L'articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2013 dal prof. Antonio Moscato sul blog Movimento Operaio e ieri riproposto sulla pagina Facebook a seguito della scomparsa di Marco Pannella. 

Non sono tra quelli che si sono stupiti per la scelta di Pannella di allearsi con il superfascista Francesco Storace designato da Berlusconi per guidare la riconquista della Regione Lazio. Conosco Pannella dal 1956, quando nelle elezioni per il comune di Roma era apparsa una lista radicale. A me, giovane comunista non ancora diciottenne, era parso interessante che dal vecchio troncone del partito liberale si fosse staccata una sinistra antifascista guidata da Bruno Villabruna, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Leo Valiani. Pannella non era ancora una figura di primo piano, e faceva come me (che tra l’altro non potevo far altro, data l’età) il giro dei seggi per controllare l’andamento dello spoglio delle schede. Ma non era destinato a un ruolo subalterno: in poco tempo i fondatori del partito se ne andarono o furono emarginati, e Pannella emerse come leader unico. Ma il suo partito, ancorché spregiudicato, appariva ai più come di sinistra, anche se cominciavano le dichiarazioni del genere “non siamo né di destra né di sinistra”. Per giunta, ad accrescere la confusione, Pannella usava con larghezza come un insulto la parola “fascista”, anche se la usava di preferenza nei confronti del PCI.

Nel 1964 c’era stata una nuova verifica: Pannella aveva rilasciato un’intervista ambigua al giornaletto di Randolfo Pacciardi, ex repubblicano e combattente della guerra di Spagna, ma ultra reazionario e precursore di Licio Gelli con un progetto di “Nuova Repubblica” che anticipava largamente quello della P2. Non molti glielo avevano rinfacciato, e Pannella continuava a pescare militanti nelle sezioni del PCI con il suo apparente radicalismo verbale. Ma non era che l’inizio. Pannella frequentava la sede di “Primula goliardica”, che doveva essere la formazione giovanile di Nuova Repubblica, ed era stata costituita con una campagna acquisti tra i picchiatori del MSI, di AN e di altri gruppuscoli fascistissimi, che per penetrare in ambiente studentesco assumevano spesso vesti nazimaoiste, gridando slogan contro “i due imperialismi”, quello USA e quello sovietico. L’orrore fu vedere insieme a quei fascisti, affacciato al balcone della loro sede, Marco Pannella, mentre la polizia caricava chi come me manifestava contro la “visita privata” di Moisés Ciombé, l’assassino di Lumumba, venuto a Roma per essere ricevuto dal papa…

[Il filmato fascistoide del 12 dicembre 1964 della “Settimana Luce” che esaltava la visita di quel mostruoso servo dell’imperialismo, e demonizzava chi protestava].

Nel 1966 questi picchiatori erano ancora operanti come squadracce, e il 29 aprile aggredirono dentro l’università di Roma lo studente socialista Paolo Rossi, uccidendolo. Rischiai di fare uguale fine la stessa sera, dopo la manifestazione per Paolo Rossi, perché finii insieme a Celeste Ingrao e un paio di compagni in un imboscata accanto all’università, organizzata da un “fronte unico” tra picchiatori di “Primula goliardica” e quelli rimasti nel MSI. Me la cavai “solo” con una prognosi di venti giorni…

Pannella ancora flirtava con loro, ma poco dopo – vista la crescita di un imponente movimento studentesco - riprendeva accenti di sinistra. I fascisti, dopo aver tentato qualche operazione di penetrazione nel movimento (a Valle Giulia ad esempio furono decisivi per l’esito della battaglia con la polizia, data la loro professionalità come picchiatori), si ritirarono in più sicure - per loro - azioni terroristiche. Molti di quelli che erano stati identificati come gli assassini di Paolo Rossi e miei aggressori, come i fratelli Di Luia, Stefano Delle Chiaie, Flavio Campo, ecc., furono incriminati per le stragi del 1969, ma regolarmente protetti dai servizi segreti, passarono a far danni altrove, ad esempio nella Bolivia di Banzer, sia come guardie del corpo, sia come narcotrafficanti.

E Pannella? Riprese il suo posto nella sinistra, riservando però sempre qualche sorpresa. Sempre in vendita al migliore offerente, quandi a volte disponibile per Berlusconi (a cui andava benissimo!), a volte per il PDS-PD, che assurdamente se lo riprendeva nelle truppe ausiliarie, senza turarsi il naso.

Va detto che il mito dei radicali come formazione di sinistra è così forte che mentre Pannella trattava con Storace, Ingroia o qualcuno dei suoi cattivi consiglieri proponeva un collegio alla Bonino, vecchia complice di Pannella, e beneficiaria delle sue campagne che la presentano come un’eroina da candidare come Presidente della Repubblica o altro incarico simile.

Può essere che la Bonino oggi si dissoci davvero da questa ennesima giravolta, ma ha condiviso per anni le peggiori scelte di Pannella. Se la “rivoluzione civile” avesse un minimo di attenzione alle questioni internazionali, dovrebbe considerare la Bonino una nemica, per la sua costante esaltazione di ogni crimine israeliano (come il bombardamento di Tunisi) e la sua difesa di tante imprese imperialiste.

Postilla: Ma pare che a queste cose i consiglieri di Ingroia non pensino molto. e si è visto il risultato in occasione del penoso esordio nella trasmissione di Lucia Annunziata di ieri, con il povero Ingroia attaccato su tutti piani: sembrava sbranato da una muta di cani rabbiosi, da Salustri ai galoppini di Marchionne fatti venire da Pomigliano, ai tanti beceri vocianti a cui non sapeva come rispondere. Ma non ha avuto neppure l’onestà di spiegare che i problemi nelle candidature con in testa di lista a volte fascisti incalliti come Luigi Li Gotti, a volte riformisti inconsistenti come Franco La Torre (con tessera del PD e nostalgia del medesimo), calabresi in toscana e toscani in puglia, non sono conseguenza fatale del solo Porcellum, ma sono dovute alla delega totale della selezione ai segretari di partito, alla faccia della democrazia e della trasparenza. Per giunta i due candidati a cui Ingroia aveva affidato la sua difesa, l’inconsistente Flavio Lotti e il dotto Vladimiro Giacché, studioso accademico di Marx ed esperto economista (ma incapace di reggere allo scontro diretto), non sono stati all’altezza.

Ingroia è stato salvato solo da due persone semplici e coraggiose, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldovrandi, che hanno saputo tener testa efficacemente alla canea scatenata.

Su Pannella consiglio un bell’articolo di Giuseppe Paolo Samonà, Mussolini e dintorni, sul numero 3 della rivista “Critica comunista”, giugno luglio 1979, che inserisco qui di seguito. Di Pannella si parla solo verso la fine, ma vale la pena di leggere tutto con calma: Samonà era stato lucido e lungimirante. (a.m.19/1/13)

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Rievocazioni e vocazioni

Mussolini e dintorni

di Giuseppe Paolo Samonà

Mussolini fascista e Mussolini socialista. Mussolini pacifista, o meglio guerriero contro la guerra e Mussolini interventista. Mussolini direttore dell'«Avanti!» e Mussolini padrone del «Popolo d'Italia». Le antitesi, comprensibilmente forse, più vituperate che analizzate; o magari, dall'enorme mole di lavoro di De Felice, descritte. Entro questo quadro si può registrare di recente una novità positiva: la ricerca di Gerardo Bozzetti su Mussolini direttore dell'«Avanti!»[i] pubblicata di recente da Feltrinelli e della quale ben si può dire che tenta di entrare nel cuore. di una di queste antitesi (e quindi anche delle altre, dato il loro evidente collegamento). A dire il vero, c'era stato in passato qualche tentativo in questo senso, ma si era trattato di tentativi più o meno celatamente propagandistici, di parte riformista moderata, per mostrare la continuità stilistica, e non solo, fra il Mussolini massimalista e quello nazionalista e poi fascista; il che avrebbe dovuto insinuare il sospetto di una più sostanziale continuità politica, spia di una intrinseca intercambiabilità fra opposti estremismi. Il libro di Bozzetti, pure di matrice visibilmente socialista di destra e pieno di simpatia (critica, peraltro) verso i Turati e i Treves, è ben superiore a simili semplificazioni, come è manifesto innanzitutto dalla appropriatezza dei passi mussoliniani riportati per svolgere via via il filo degli avvenimenti e delle argomentazioni. Questa ricerca, cosa rara per tale tipo di temi, è inoltre condotta senza tarpanti tabù ma anche senza quei compiacimenti ostentatori di obiettività che sembrano talvolta servire a De Felice per celare surrettizie velleità di rivalutazione del protagonista dei suoi studi. Indicativa a questo proposito è la narrazione di un piccolo episodio fatto da Ugoberto Alfassio Grimaldi in apertura della sua prefazione:

La sera del 26 settembre 1978 Gherardo Bozzetti ed io, mentre davanti al primo canale televisivo vedevamo l'ultima puntata di «Alto tradimento», la trasmissione dedicata a Cesare Battisti, trasalimmo nel cogliere una «perla» madornale. Si diceva che il protagonista nell'agosto del 1914, lasciata Trento per non più ritornarvi che per offrire il collo al cappio del boia, si dirige a Milano per cercarvi il direttore dell'Avanti! Morgari: fattoselo indicare da un cameriere in un bar, lo elogia per il successo del foglio e per il modo con cui lo conduce. Il direttore dell'Avanti!, allora, era Mussolini: Oddino Morgari aveva, si, diretto quella testata, ma nel 1908. Un semplice errore materiale o un ritorno al vecchio tabù? La cultura socialista italiana ha fatto fatica ad ammettere di aver espresso fisiologicamente dal proprio seno Benito Mussolini. [p. 7]

Ma vediamo la tesi in cui Bozzetti mostra di riuscire convincente ripercorrendo il biennio di esordio di Mussolini come figura importante della scena politica italiana e come uno dei protagonisti di quella giornalistica: la scintilla che catalizzò quel tanto di energia interiore per l’«arvultaja» (la capriola) fu la prospettiva immediata di diventare padrone assoluto di qualche cosa: il giornale interventista «Il Popolo d'Italia », interamente suo. Mi sembra molto ragionevole; molto più, per esempio, che attribuire a Mussolini chissà quale lungimirante opportunismo. Certo il futuro duce (nome che a dir la verità gli nacque ai primi del secolo, in ambito socialista forlivese) si rendeva conto che il pacifismo andava perdendo terreno e, sfumati i bollori giovanili, che era una barca da abbandonare; ma ciò si rese visibile e palpabile come prospettiva politica e pratica solo con la possibilità di diventare padroncino da autorevolissimo direttore quale era. Una parte della ricerca di Bozzetti è tesa giustamente a dimensionare quella libertà che a Mussolini veniva appunto dall'essere autorevole, non solo all'«Avanti!» ma in tutto il socialismo italiano; perché in effetti il partito era sì in buona misura infatuato di Mussolini, ma non più che di infatuamento si trattava, se è vero che il direttore dell'« Avanti!» andò via praticamente solo, pur se tra i suoi gerarchi di ogni calibro non saranno pochi quelli che avevano cominciato da una milizia PSI.

Questo però non vuol dire che Mussolini fosse stato un corpo estraneo nel socialismo italiano, bensì che lo diventò col tradimento (che sia consentito continuare a scrivere fuori di virgolette non in deroga ma in omaggio a quella obiettività che tanto calorosamente viene sempre raccomandata sull'argomento non solo da De Felice ma ormai anche da tanti fautori della necessità di trattare il fascismo alla stregua di una corrente politica come le altre. Di ciò però si dirà più avanti). Si può ben dire che Mussolini direttore dell'«Avanti!» è innanzitutto una esemplificazione dimostrativa di questa fisiologicità di Mussolini al socialismo italiano.

Piuttosto che ripercorrere fase per fase l'itinerario di Bozzetti, credo sia il caso di raccomandarne la lettura a chi è interessato, anche in senso lato, all'argomento, che presenta, a mio avviso, aspetti attualissimi. Prima di trattare i quali, però, mi sembra opportuno menzionare una fonte, o meglio un punto di riferimento importantissimo cui Bozzetti – come tutte le ricerche serie sul Mussolini di quel periodo - si rifà più volte: il libro della scrittrice anarchica Leda Rafanelli, intitolato Una donna e Mussolini.[ii]Si tratta del carteggio che negli anni '13 e '14 (fino appunto al tradimento) l'autrice ebbe con Mussolini, di lei fortemente invaghitosi. Le lettere sono inserite in una sorta di intelaiatura diaristica della Rafanelli, i cui moduli letterari e sentimentali datati nulla tolgono a una notevole capacità psicologica sostenuta da salde convinzioni rivoluzionarie, pur se di generico indirizzo anarchico. Una finestra, una delle poche dal vivo e fuori dalle ricostruzioni romanzate, sul Mussolini privato, e che costituisce uno strumento prezioso per tutta la ricostruzione di una personalità, ma ancor di più, eventualmente, per la comprensione del periodo cruciale del biennio in cui il carteggio ebbe luogo.

Non meno preziosa testimonianza delle lettere è la memoria dell'allora giovane Rafanelli, che fra i suoi miti estetizzanti e una non meno estetizzante infatuazione (duratura, peraltro) per la fede musulmana, poco posto lascia a digressioni autoapologetiche e che sembrino comunque posticce e giustificatorie (tutto il libro è anzi un'ampia ammissione dell'inganno in cui era caduta nel suo periodo di frequentazione mussoliniana pur talora con più di un sospetto premonitore). Notevole per esempio (e crediamo debba averci riflettuto anche Bozzetti) questo squarcio di ricordo su un momento di abbandono da parte del direttore del quotidiano socialista:

«Tanti ricordi mi addolorerebbero, se avessi il tempo di pensarci... Ma il tempo incalza, e bisogna correre... Ho il terrore del tempo che incalza invano. Vorrei fare tante cose... Ed ora sono incerto, scontento, irrequieto... Mi sento negato e fuori posto.»

«Eppure credevo che, essendo arrivato ad essere direttore del massimo giornale socialista, dovreste essere contento. »

«Non sarò mai contento, io! Vi dico, ho bisogno di salire, di fare un balzo in avanti, in alto... Ma ho bisogno di una spinta... di un appoggio. Vorrei che tutti parlassero di me... divenire l'uomo del giorno... l'uomo del destino...»

«Come Napoleone...» dissi leggermente ironica.

« Ancora più di Napoleone.» [p. 63]

Notevoli anche, fra l'altro, alcune premonizioni (ricostruite con una credibilità che le fa sembrare autentiche) dell'infidezza mussoliniana che l'autrice trae da una capacità straordinaria di concentrarsi sui piccoli episodi; capacità che in lei compensa spesso la cattiva letteratura, tutt'altro che assente dalle sue pagine.

 

* * *

 

L'enigma Mussolini non sta naturalmente nell'«arvultaja», in sé, di cui questi due libri, meglio di tanti altri magari più vasti e organici, ci danno credibili chiavi di interpretazione. Sta piuttosto nel tipo di consenso che il capo del fascismo riuscì a raccogliere. Bisogna guardarsi in proposito dalla vulgata qualunquistica, secondo la quale tutti gli italiani furono fascisti; ma che consenziente o benevolmente indifferente ful'intelligenciia, è difficile negarlo. Come è difficile negare che questa intelligencija fu in gran parte consenziente con ciò che venne dopo la guerra.

Desiderio di adattamento certo; ma solo questo?

La personalità di Mussolini (o per meglio dire i connotati culturali e antropologici di essa) non è che un solo elemento del fenomeno fascista italiano. Non è però un elemento secondario. Il che è meno ovvio di quanto sembra, perché la sinistra italiana - marchiata durevolmente sul piano culturale dagli aspetti oggettivistici dello stalinismo (da quelli soggettivistici fu influenzata piuttosto sul piano più direttamente politico) - ha sempre provato un'acuta diffidenza verso indagini del fenomeno fascista che in qualche modo tendessero a vedere nel fascismo radici che non fossero da ricercare tutte nella destra post-unitaria.[iii] Stando così le cose, se davvero si dovesse approfondire il discorso sulla organicità del primo Mussolini - che palesemente conteneva tutte le premesse del futuro duce - alla cultura populista italiana, si andrebbe a una notevole svolta in senso autocritico di tutta la nostra cultura di sinistra.

E qui vorrei dire, magari brutalmente, perché trovo questa tematica di estrema attualità. La sinistra italiana, sia storica che non, sta esaurendo un suo ciclo, non perché c'è il famoso riflusso ma perché alle «generose illusioni» del '68 studentesco non crede più nessuno, pur se quella spinta non si è esaurita. Per lo spettacolo che gli intellettuali PSI-PCI - e anche di estrema sinistra - stanno in gran parte offrendo non è il caso di trovare aggettivi: l'invettiva non aiuta l'analisi.

È d'obbligo inoltre non fare d'ogni erba un fascio, purché però non si giunga alla conclusione che l'erba non esiste o che le sue varietà sono numerose quanto i suoi fili. Nell'ambito di quelle mutazioni di rotta indotte in molti militanti (che in qualche modo vogliono continuare) per la delusione che la storia non ha seguito le bubbole in cui credevano dieci e meno anni fa, mi sembra sensato distinguere tre atteggiamenti culturali fondamentali: il primo, molto buonsensistico piccolo borghese ma anche piuttosto diverso dagli altri due, consiste nel riguardare all'impegno degli anni ruggenti con l'animo con cui un maturo scienziato dalla candida barba ripensa all'acne giovanile; di solito si sceglie per queste elegiache esibizioni il PCI o i suoi immediati paraggi, come ha fatto l'infaticabile viandante di sinistra Corvisieri. Il secondo consiste principalmente nel ritenere che l'unico punto valido di quell'impegno sia l'avversione al PCI, la quale è, beninteso, da incrementare trasformandola in una avversione, non sempre dissimulata, per tutto il movimento operaio e la sua storia: in questo caso la scelta craxiana è molto praticata, anche perché tiene al riparo - tranne le poche soubrettes - da sguardi culturalmente indiscreti e può indurre gli interlocutori a qualche cautela per quel relitto di falce e martello rimasto per ogni evenienza sotto lo straripante garofano a ombrello (per esempio: riesce difficile credere che su questo genere di copertura non abbia contato Giampiero Mughini al momento in cui ha progettato di far pubblicare nientemeno che sull'«Avanti!» il risultato di un suo cordiale incontro con la fascista Gianna Preda, redattore capo del «Borghese»; i retroscena dell'episodio incredibile ed erroneamente sottovalutato in tutta la sinistra, sono stati riassunti dall'«Espresso» del 6 maggio scorso, con accompagnamento di interviste a esponenti dell'area nuovofilosofeggiante italiana favorevoli sostanzialmente al Mughini in nome della «non demonizzazione» dei fascisti).

Il terzo atteggiamento, contiguo al precedente non solo numericamente, prevede la scoperta dell'interclassismo e della proprietà privata come novità rivoluzionarie del giorno nonché unico antidoto al gulag, e tante altre cose dello stesso genere; l'area caratterizzata da questi motivi si pone esplicitamente come quella del riciclaggio in senso filocapitalista di trucioli (ma sono miriadi) dell’estrema sinistra e in particolare di Lotta Continua, che vi apportano fra l'altro un odio antisindacale praticamente illimitato; tutto ciò trova il suo punto di coagulo attualmente nel Partito radicale, il quale in sé non è certo portatore di mascherate istanze autoritarie, come troppo spesso mostra di credere il PCI (ma è un'altra variante dei suoi tic stalinisti): certo però è questo entourage del PR - con il suo disprezzo per la cultura e per le idee, con la sua pratica quotidiana di una incontrollata violenta verbosità, con la sua abitudine alla pratica di un domestico culto della personalità - a costituire un terreno di coltura per personalità carismatiche in transito da sinistra verso destra, e che giustamente scelgono Pannella come compagno di spensieratezze anticomuniste.

Certo la storia non si ripete mai identica, ma è anche vero che per l'«arvultaja» dalla rivoluzione socialista al punto di vista in un modo o nell'altro capitalistico, le vie non sono infinite. E i motivi ricorrono, con le dovute varianti ma con notevoli analogie: il culto per l'azione di timbro gentiliano, l'ansia di rimanere tagliati fuori da chissà che cosa... tutto ciò nei momenti d'ascesa può diventare il torrente spontaneista, in quelli in qualche misura difensivi può invece assumere il ghigno del Mussolini della crisi 1914.

Mi rendo conto sin qui di avere fatto soprattutto delle enunciazioni, sia pure sulla base di ipotesi a lungo personalmente meditate. Passare a esemplificare una volta o l'altra sarà necessario, e allora bisognerà spingere il discorso sino in fondo e con tutte le pezze d'appoggio. Ma non c'è fretta. Perché ne vedremo delle belle. E gli ex uomini di sinistra che vorranno contribuire a mobilitare la piccola borghesia contro la classe operaia - come del resto già incominciano a fare - daranno del loro agire esempi pratici tali che varranno meglio di ogni pur necessaria citazione virgolettata, di ogni bibliografia e di ogni tipo di chiosa.

A quel punto - se sarà superata la diffidenza del marxismo rivoluzionario italiano per la speculazione sovrastrutturale; se sarà affermata una accezione più limitata e rigorosa del termine fascismo, che in ogni caso non coincide strettamente con mussolinismo -, a quel punto, davvero, sarà opportuno riprendere il libro di Bozzetti e quello della Rafanelli e ristamparli in economicissima a grande tiratura.

 

(Foto: paPisc/Flickr)

 

[i]J GHERARDO BOZZETTI, Mussolini direttore dell'Avanti!, prefazione di Ugoberto Alfassio Grimaldi, Feltrinelli, Milano, 1979.

[ii]LEDA RAFANELLI, Una donna e Mussolini, introduzione di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano, 1975.

[iii]Di recente il PCI ha scoperto affinità o identità fra i protofascisti e gli autonomi. Ma è puro strumentalismo; o meglio, è la versione stalinista degli opposti estremismi.

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